Nel Si&No del Riformista spazio al film Barbie: è un inno al femminismo? Favorevole la nostra giornalista Claudia Fusani che ringrazia Greta Gerwing perché “alla fine è diventata normale e ordinaria come noi”. Contraria invece Ermelinda M. Campani, direttrice Stanford Florence, che boccia il film perché “accetta lo status quo patriarcale e valida lo stato delle cose”.

Qui il commento di Claudia Fusani:

Chiunque di noi nate dal 1959 in su ha avuto a che fare con Barbie. Molte di noi hanno desiderato, per periodi più o meno lunghi, essere Barbie. Quella là, la prima, il prototipo e poi stereotipo, bionda, capelli lunghi, coda di cavallo, lineamenti perfetti, occhi azzurri. E anche, per fortuna, gli altri modelli che negli anni Mattel ha messo sul mercato, sempre già inclusivi, diversi, imperfetti, cinque tipologie fisiche e ventidue di carnagione, settantasei acconciature, novantaquattro colori di capelli, undici di occhi, ben duecento carriere, dalla casalinga all’astronauta, dalla candidata presidente alla fotografa. Persino io, con fratello maggiore fissato sui trenini della Rivarossi e di certo non propensa a giochi sedentari, ho sognato di essere Barbie. Un sogno interrotto perché a un certo punto i conti non tornavano più: l’amore con Ken non scoppiava mai e la vita, lo si capisce presto, non è Barbieland e non ha il colore pantone PMS 219, che è il rosa Barbie.

Non saprei dire cosa sognano le bambine adesso. Temo – temevo prima di vedere il film – che i device e il web avessero dirottato altrove sogni e ambizioni. Forse è così. Andare al cinema al cinema mi ha però rassicurato: quattro, anche cinque generazioni, dai 4 agli 80 anni, hanno partecipato con me al rito del film cult dell’estate e forse dell’anno. Ognuna ci ha trovato quanto cercava: le più piccole i modelli di bambola esistenti in un mici-celo (mi manca – ce l’ho) sussurrato a ogni scena del film; le adolescenti sono impazzite per la “Barbie Stramba” che è una via di mezzo tra il Bianco Coniglio, lo psicologo, la leader della classe. Le più anziane i sogni e non i rimpianti di un tempo, indossando rigorosamente qualcosa di rosa.

Le generazioni di mezzo, le più critiche e scettiche, sono uscite dalla sala avendo fatto pace con la loro bambola che è andata in crisi, ha pianto, reagito, avuto coraggio, messo tutto in discussione e poi, alla fine di un viaggio zeppo di citazioni tra Alice nel paese delle meraviglie e 2001 Odissea nello spazio (straordinaria la scena iniziale delle bambine anni Cinquanta che fanno a pezzi i loro bambolotti di pezza tutti uguali e inerti, come l’uomo-scimmia che scopre l’osso, l’uso che ne può fare e dà origine all’evoluzione del genere umano), ha fatto la propria scelta. Che è diventare “ordinaria”. Tra attacchi d’ansia, paure, la cellulite che avanza, i difetti con cui convivere, la precarietà, le lacrime e i sorrisi, le speranze e le delusioni. In una parola: Barbie è diventata normale. “Cara, sei sicura di voler fare questo passo”, chiede a Barbie il fantasma di Ruth Handler che la creò nel 1959 (la bravissima Rhea Perlman) e che ora assiste con compassione a saggezza la sua “bambina”. “Potremmo chiamarla Barbie ordinaria”, suggerisce la segretaria del CEO di Mattel, mamma single che nelle pause disegna Barbie e un giorno la immagina in lacrime con la paura di morire. Bozzetti galeotti, così in sintonia con Barbieland (anche qui c’è di mezzo qualche buco nero dell’infanzia), che danno il via alla trama.

Il film è stato attaccato da destra e a tutti i livelli. Così come Barbie lo fu dal movimento femminista perché icona di un mondo ideale che non esiste. Oggi accusano “Barbie” di essere “femminista” nel senso di sessista e “woke”, persone “svegliate”, cioè all’improvviso schierate sulle tematiche femminili (termine nato con il MeToo). Peggio: di trascurare la famiglia. Tranquilli. Gli uomini non fanno una grandissima figura: però vanno riconosciuti l’ironia della Mattel, con un cda tutto maschile, e il ruolo di Ken, che non è un comprimario. La famiglia, poi, è rappresentata in tutta la sua potenza, dalla nonna (il fantasma di Ruth Handler), alla nipotina ribelle e arrabbiata (“levati, fascista” le ringhia in faccia) proprio con il mondo delle Barbie. Ma è lei che poi deciderà di “tornare indietro”. Certo, una famiglia allargata e non tradizionale, dove la migliore amica è interpretata da un noto attore trans.
Dunque grazie “Barbie”. Grazie Greta Gerwing (di cui ho amato anche il remake di Piccole donne). Guai a spoilerare. Preparatevi alla scena finale: in sala hanno sorriso tutti. Ed è liberatoria. Sappiate che d’ora in poi avrà una vita “ordinaria”. Come noi.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.