L'intervento
Basta carcere a oltranza, per certi reati basta il risarcimento: necessario depenalizzare

Il dibattito che si è acceso sulla necessità di una nuova depenalizzazione, sottintende in realtà la necessità di smaltire l’enorme arretrato che si è aggravato dopo la sostanziale chiusura dei tribunali per l’epidemia da Covid-19. In realtà si tratta di mali antichi ed endemici che si trascinano da decenni. Quando sono entrato in magistratura si ebbe la prima depenalizzazione con la legge 689 del 24 novembre 1981. Ricordo il commento di un autorevole procuratore dell’epoca: «Hanno dato un giocattolo in mano ai pretori per farli divertire». Nel corso dei successivi 40 anni si sono succeduti altri provvedimenti di depenalizzazione, di abrogazione di reati trasformati in illeciti civili, di amnistie, indulti e condoni vari. L’entrata in vigore del “nuovo” processo penale, che attraverso i riti semplificati avrebbe dovuto deflazionare il carico della giustizia penale, ha in realtà finito in breve con l’aggravare la situazione.
Eppure si era partiti dal presupposto, accettato da tutti – avvocatura, magistratura, dottrina e giurisprudenza – che il processo penale è una risorsa preziosa e costosa da usare con parsimonia solo per quei comportamenti ritenuti effettivamente devianti e che intaccano i beni giuridici primari tutelati dalla nostra Costituzione. Ovviamente non è stato così: la “perenne emergenza”, felice locuzione coniata dall’illustre penalista napoletano Sergio Moccia, ha comportato una panpenalizzazione, che risponde più a spinte di carattere populistico che a reali esigenze di tutela della collettività. Facciamo un esempio per capirci: la tutela del territorio risale a una legge del 1941 poi trasfusa nel testo unico 380 del 2001 che sanziona come contravvenzioni gli illeciti edilizi. Uno su mille dei processi per abuso edilizio arriva a condanna definitiva: tutti gli altri si prescrivono, e, se anche non si prescrivessero, le condanne consisterebbero in pene miti quasi sempre soggette a sospensione condizionale. Le vere e reali sanzioni sono quelle accessorie di carattere amministrativo: la demolizione dell’immobile e la perdita di proprietà dell’area di sedime.
Chi dovrebbe applicare queste sanzioni, indipendentemente dalla esecuzione della sentenza di condanna, sono gli enti territoriali che, invece, quasi mai si attivano. E allora, tornando alla questione della depenalizzazione, questa va senz’altro perseguita, ma a patto che le autorità amministrative chiamate a far rispettare le norme e ad applicare le sanzioni, siano messe in condizione e, aggiungo, abbiano la reale volontà, di eseguire le sanzioni stesse. Troppo spesso le polizie locali e, in seconda battuta le Prefetture, difettano delle risorse personali e strutturali per poter adeguatamente affrontare i nuovi compiti che le varie depenalizzazioni hanno loro affidato. Si pensi, per esempio, alle violazioni del codice della strada. Naturalmente vi sono anche esempi virtuosi.
Penso, sempre a titolo esemplificativo, alla depenalizzazione della omissione dei contributi Inps da parte delle imprese sotto un certo tetto, avvenuta con il decreto legislativo 8 del 2016: quella depenalizzazione è risultata efficace in quanto l’Inps è estremamente puntuale nell’applicare le nuove sanzioni amministrative. Dunque, prima di pensare a ulteriori depenalizzazioni è necessario rafforzare le strutture di controllo deputate a farle rispettare. Ma, come è stato autorevolmente sostenuto su questo stesso giornale, occorre in realtà una vera e propria rivoluzione culturale che ponga al centro dell’attenzione del legislatore, da un lato, i diritti di libertà del singolo e, dall’altro, che vengano sanzionate con lo strumento penale soltanto le violazioni dei beni primari costituzionalmente garantiti, abbandonando la penalizzazione a ogni costo soprattutto quando la riparazione del danno in sede civile appaia la via più diretta e immediata per il ristoro delle vittime o, comunque, ampliando i casi di estinzione del giudizio a seguito di avvenuto ristoro dei danni. Un esempio? La diffamazione,
reato che ingolfa le aule di tribunale e che il codice punisce addirittura con la reclusione fino a tre anni.
Senza dimenticare che comunque il processo penale andrebbe del tutto ripensato, essendo oggi la fase delle indagini sostanzialmente appannaggio del solo pubblico ministero, ove gli spazi di controllo della difesa e del gip sono sostanzialmente evanescenti (ne abbiamo già parlato a proposito della nuova legge sulle intercettazioni), risolvendosi in orpelli formali che appesantiscono solo la procedura. Per non parlare della sostanziale discrezionalità dell’azione penale, non sussistendo alcun reale controllo sulle modalità di esercizio della azione da parte del singolo sostituto che può, senza colpo ferire, chiedere la custodia cautelare e poi, all’indomani di una scarcerazione per mancanza di indizi, chiedere l’archiviazione anche a distanza di anni senza che alcun ulteriore atto di indagine sia stato compiuto. Dunque la situazione è non solo grave, ma anche complessa e risolverla non sarà facile, ma ormai è diventato urgente e indifferibile por mano a una riforma complessiva del sistema ispirata dai principi costituzionali, nei fatti traditi, anche per ridare credito a una magistratura purtroppo screditata dai noti comportamenti clientelari.
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