Un servizio al telegiornale, un titolo in prima pagina, una conferenza stampa e la vita cambia. Forse per sempre, forse finisce. Sarebbe semplice, quasi banale, snocciolare nomi e cognomi di tutti coloro che hanno subito una gogna mediatica per poi risultare innocenti. Ricordo bene, per ragioni territoriali, il caso di Stefano Graziano, accusato di voto di scambio e di essere fiancheggiatore dei Casalesi e poi prosciolto. Ne abbiamo letto in qualche trafiletto.
Voglio, invece, affermare un principio che si spinge un po’ più oltre. Basta gogna mediatica anche per coloro che poi risulteranno essere colpevoli del reato imputatogli.

Il recepimento della direttiva 343/2016, infatti, ci riporta a principi già tutti contenuti nella nostra Costituzione che, però, col passare del tempo e l’evolversi dei nuovi mezzi di informazione, sono stati svuotati di significato. Direi elusi, diventati lettera morta. Ed ecco allora il processo mediatico, la notizia sparata in prima pagina, le veline che dalle scrivanie dei pm passano alle scrivanie dei giornalisti, le conferenze stampa delle Procure che narrano di un imputato già colpevole. La vita che cambia. Forse per sempre, forse finisce. Perché, come bene ha detto Luciano Violante nei giorni scorsi, il problema della presunzione d’innocenza è legato a doppio filo a quello di un’informazione spesso lesiva della dignità umana e della privacy. 

Consapevole del fatto che non abbiamo bisogno di generalizzazioni, sento di rivolgere un interrogativo (molto probabilmente retorico) a chi ci legge: quante carriere sono state costruite sull’onda della rilevanza mediatica? Quante narrazioni di vicende che involgevano amministratori pubblici hanno caratterizzato il dibattito politico degli ultimi anni? Quanto è stata stimolata l’emotività rispetto a fatti che andavano letti solo con la chiave della logica e del diritto? Quante intercettazioni abbiamo letto o ascoltato indebitamente, quanto materiale probatorio sottoposto a segreto investigativo abbiamo visionato? Ve lo dico io: tante volte. Ricorderete i video dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere o, ancora più di recente, le intercettazioni nell’ambito delle indagini sul “sistema De Luca”, in onda a Non è l’Arena di Massimo Giletti. I verbali dell’interrogatorio reso dall’imprenditore Fiorenzo Zoccola, da ieri ai domiciliari, sono di dominio pubblico e girano in tutte le redazioni, coinvolgendo anche persone non indagate. Il giudizio politico può anche restare sospeso, ma perché la giustizia deve diventare uno show?

E la cronaca giudiziaria si è trasformata da cane da guardia della democrazia a cane da compagnia (o “da salotto”, come direbbe un cronista di lungo corso). E allora, finalmente, proviamo a ritornare allo Stato di diritto. L’imputato avrà diritto a essere rappresentato come innocente fino a quando non interverrà una sentenza definitiva di condanna; niente utilizzo in pubblico di strumenti di coercizione se non strettamente necessari; nessuna conferenza stampa se non per specifiche (non più solo rilevanti, come pure qualcuno aveva proposto) ragioni di pubblico interesse. Ritorniamo alla civiltà giuridica e alla civiltà di cronaca. Perché una vita non può e non deve finire per una notizia in prima pagina. Può essere, questo, sufficiente? Può, da sola, la direttiva europea rendere questo Paese più civile?

Credo proprio di no: non si può risolvere l’intero problema affrontandone solo una parte. Bisognerebbe avere il coraggio di mettere mano a una nuova disciplina, ampia, strutturata, che riequilibri il rapporto tra vicende giudiziarie e media. Giace, incardinata in Commissione Giustizia, una proposta di legge a mia prima firma sul tema, condivisa da esponenti di tutti i partiti rappresentati in Parlamento: senza pretese, può rappresentare un punto di partenza per una discussione che involge aspetti non contemplati dal decreto attuativo della direttiva 343. Solo quando avremo stabilito un punto di equilibrio, infatti, potremmo dire di vivere in un Paese che tutela tutte le libertà in gioco.