Basta pannicelli caldi, alla giustizia servono riforme vere

La recente vicenda dei pestaggi subiti dai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere ha creato un clima di grave turbamento nell’opinione pubblica che appare sempre più disorientata e smarrita di fronte ai troppi scandali che vedono spesso coinvolti uomini degli apparati dello Stato impegnati in delicati compiti nel settore dell’amministrazione della giustizia. Già appare imbarazzante il fatto che, nelle statistiche della Corte europea dei diritti dell’uomo, il nostro Paese occupi da tempo il primo posto tra quelli con il maggior numero di violazioni e di condanne.

Secondo i dati tratti dalla Commissione ministeriale voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia, infatti, ben 1.202 sono state le condanne che l’Italia ha collezionato tra il 1959 e il 2020. A seguire, con la metà e meno delle violazioni, la Turchia (608), la Grecia (542), l’Ucraina (445) e la Polonia (443). In particolare, le violazioni correlate alla durata del processo appaiono ancor più intollerabili e rappresentano la metà di tutte quelle accertate dalla Corte di Strasburgo. Il recente scandalo del “premiato nominificio Palamara”, poi, con i suoi più recenti sviluppi, ha contribuito a versare altra benzina sul fuoco, destando nell’opinione pubblica un ulteriore senso di sfiducia verso la giustizia e le sue istituzioni. Ma quali le cause, e quali le possibili soluzioni del problema?

Partiamo dalle ultime vicende dei pestaggi in carcere, dove la risposta dello Stato – ferma restando la presunzione di innocenza – sembra essere stata almeno sul piano della repressione del tutto efficace e tempestiva. Ben diverso il discorso per quanto riguarda, invece, le condizioni delle carceri nel nostro Paese. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, nel 2020 il tasso di affollamento è stato pari al 115%, mentre 61 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre. Erano quasi 20 anni che non si aveva un tasso di suicidi così elevato. La condizione di invivibilità degli istituti di pena costituisce una vergogna nazionale alla quale si cerca di porre rimedio – secondo una visione mercantilistica della giustizia penale oggi molto in voga – o mediante risarcimenti monetari oppure degli sconti di pena al di fuori di qualunque logica rieducativa, semplicemente perché lo Stato non è in grado di assicurare ai detenuti condizioni dignitose di vita. Il risultato di una tale scellerata politica carceraria è sotto gli occhi di tutti: le proteste all’interno delle carceri montano sempre di più e, se le cose non cambieranno, sempre maggiore sarà il pericolo, in futuro, che episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere possano ripetersi in altre località del Paese.

Ma un’altra vergogna alla quale pure sembra che non si intenda porre in alcun modo rimedio è quella del “premiato nominificio Palamara & co”. Qui, sia le proposte di riforma elettorale del Csm, avanzate dalla Commissione ministeriale, sia gli stessi quesiti referendari proposti dai partiti appaiono dei pannicelli caldi a fronte dei gravi illeciti consumatisi attraverso la spartizione cencelliana degli incarichi tra le varie correnti dell’Anm. Mentre la sostanziale assenza di risposte soddisfacenti – sia in sede penale che disciplinare – genera sconforto e turbamento in vasti settori dell’opinione pubblica, sempre più rassegnati all’idea dell’impunità e della sostanziale intoccabilità, nel nostro Paese, dei santuari del potere. In mancanza di qualsiasi segnale che faccia intravedere una seria presa di coscienza del problema da parte sia della magistratura associata che delle altre istituzioni, non resta che sperare in un colpo di coda della politica.

Due le possibili soluzioni per arginare lo strapotere delle correnti: la nomina dei componenti del Csm attraverso il sorteggio temperato (ovvero un sistema che preveda l’estrazione a sorte di una platea di candidati svincolati dalle correnti, all’interno della quale i magistrati elettori potranno poi scegliere il candidato che preferiscono) e, soprattutto, il ridimensionamento della discrezionalità del Csm, attraverso l’individuazione, da parte del legislatore, di regole e criteri certi da seguire nelle nomine dei capi degli uffici, tali da non lasciare più spazio ad arbitrarie interpretazioni, illecite spartizioni, abusi e favoritismi. Per quanto riguarda infine i tempi irragionevoli del processo, il discorso sarebbe molto più lungo e articolato. Il sistema processuale americano, dal quale nel 1989 fu mutuato in Italia il processo accusatorio oggi in vigore, si basa su tre capisaldi che però sono incompatibili con le nostre tradizioni giuridiche: la discrezionalità dell’azione penale, la sostanziale inappellabilità delle sentenze e la decisione assunta dal giudice in forma di verdetto e non di sentenza. Soprattutto tale ultimo aspetto incide non poco sulla durata dei processi.

Mentre le sentenze italiane hanno infatti motivazioni quasi sempre molto articolate, negli Stati Uniti l’atto finale del processo è il verdetto pronunciato dalla giuria popolare che non va motivato. Ciò influisce notevolmente sul tempo dedicato alla celebrazione dei processi. Per quanto riguarda invece l’appello, nel sistema statunitense non è consentita una diversa valutazione delle prove, in quanto soltanto la macroscopica ingiustizia del verdetto o gli evidenti errori di procedura possono giustificare la celebrazione dell’appello che in ogni altro caso sarà dichiarato inammissibile.