Qualcuno descrive la Sicilia come un “continente” del vino. Un termine azzeccato per raccontare la vastità e la varietà di una regione che va dalle vigne sul mare dell’agrigentino alla viticoltura eroica dell’Etna a quota mille. In mezzo c’è una molteplicità di territori vitivinicoli caratteristici dove le uve autoctone offrono espressioni del tutto diverse e originali.

Tra questi territori, nascosto nel cuore della parte occidentale dell’isola, a metà strada tra Palermo e Trapani, c’è quello di Salaparuta, uno dei paesi feriti dal tremendo terremoto che nel 1968 distrusse i centri abitati della valle del Belice. L’intera zona, estesa per 40 chilometri, vive principalmente di agricoltura, ma i 1600 ettari di vigneti e la produzione di vino di qualità sono il punto di forza. Tanto da ricevere il riconoscimento della denominazione di origine l’8 febbraio del 2006. “A volte per uscire dal cono d’ombra bisogna inventarsi qualcosa”. Da qualche tempo ho deciso di aprire i miei post su Instagram con la localizzazione ‘Salaparuta Valley’. Ho scatenato curiosità e apprezzamenti da tutto il mondo”, racconta entusiasta Giuseppe Palazzolo, giovanissimo proprietario di vigne e mandorleti, laureato in agraria e specializzato in enologia e viticoltura. Per ora produce una sola etichetta a base di Catarratto, ma ha mille progetti per la testa. Primo tra tutti, la valorizzazione del suo territorio. Un impegno assolutamente necessario se si pensa ai danni che il terremoto di fine anni 60 ha provocato, ritardando lo sviluppo dell’area.

Della città vecchia, sita in collina a 380 metri, restano solo alcuni ruderi. Il nuovo centro abitato è stato costruito più a valle, a partire dagli anni 70. Ma per un decennio la popolazione ha vissuto in condizioni di grave disagio. “Da bambino vivevo nelle baracche. Non c’erano mezzi meccanici e mio padre mi metteva sulla mula per andare a prendere l’acqua in collina. Dovevano aiutarmi perché ero talmente piccolo che non sarei riuscito più a risalire sull’animale. A quattordici anni sono andato a Chicago dove ho fatto il panettiere e pizzaiolo, ma la campagna mi mancava. Così sono tornato e ho cominciato ad allevare animali e vigne”. Pietro Scalia, 52 anni, racconta una storia di fatica, ma anche di successo. Oggi la sua azienda produce diverse etichette e lui è stato eletto di recente presidente del Consorzio Salaparuta Doc. “Dobbiamo lavorare per lasciare il testimone ai più giovani. Saranno loro a far crescere questo territorio”, assicura.

Tra i più giovani ci sono anche Eliana e Calogero Mazzara, titolari dell’azienda Leonarda Tardi, un nome che è un omaggio alla mamma scomparsa nel 2018. “La mamma ci diceva sempre: fate, fate, fate”, racconta Eliana. Oggi i due fratelli, cresciuti nei vigneti di famiglia, danno seguito a questo incitamento, mettendo a frutto i cinque ettari di Catarratto, Chardonnay e Nero d’Avola. “Alikase”, il nome dell’etichetta di punta dei fratelli Mazzara, in dialetto locale significa “a casa nostra” e rappresenta molto bene i valori di autenticità e di accoglienza di questa terra. Una terra – e una doc – che Calogero, da poco vicepresidente del Consorzio, vuole valorizzare sempre di più per quello che merita. L’area può contare su attrattive culturali e turistiche importanti come il Cretto che Alberto Burri ha realizzato sui ruderi di Gibellina, uno dei simboli della ricostruzione. E su cantine che hanno fatto la storia e producono vini di qualità.

Per esempio, la cantina Vaccaro, creatura di Giacomo, imprenditore che, nella seconda metà degli anni ’90, cambia attività e si dedica completamente alle vigne, realizzando un’azienda molto avanzata anche dal punto di vista tecnologico. Poi la palla passa al figlio Carmelo e alla figlia Catia. A raccontare la storia e la filosofia della cantina è Luigi Restivo, responsabile marketing e nipote di Giacomo: “Abbiamo poche barrique che usiamo per la nostra linea di alta gamma. Preferiamo l’acciaio che permette ai vini di esprimere in pieno il loro frutto”. Nella linea Terrabedda c’è anche uno sforzo di zonazione e di valorizzazione dei terroir che spiega bene le potenzialità del territorio. Uno dei primi a riconoscere questa potenzialità è stato Giovanni Palermo, enologo e consulente dal 1987, poi produttore in proprio dal 1999. “Mia moglie è piemontese. Un giorno mi chiese: ma come? Fate le uve e non fate il vino? Anomalo!”, racconta divertito Giovanni.

Quello sprone fu importante. Giovanni comincia così a vinificare nel suo garage il suo Nero d’Avola – certamente tra i migliori della zona e di tutta la Sicilia – e da lì non si sposta più, mantenendo la dimensione e la filosofia del vignaiolo ‘garagista’. Il suo ruolo per la nascita della doc è fondamentale e per molti anni ricopre il ruolo di presidente del consorzio. Fanno parte del consorzio altre cantine storiche e cantine sociali di qualità. Tra le altre, la Cantina Giacco, fondata da Nunzio Stillone e oggi guidata dalla verve di Giuseppe Pirrello, e il Baglio San Vito di Rosalia Mulè, dotata di una monumentale ed elegante struttura ed etichette ispirate alle opere di Giovanni Verga. Ultimi, ma non ultimi, i vini.

I campioni della zona sono certamente i vitigni autoctoni siciliani: il Catarratto, il Grillo, lo Zibibbo, tra i bianchi; il Nero d’Avola (ma possiamo ormai considerare territoriale anche il Syrah) tra i rossi. Non mancano anche i vitigni internazionali – che qui si esprimono molto bene – come, per esempio, Chardonnay, Viognier, Merlot, Cabernet Sauvignon. Ma se si dovesse incoronare un re dei vitigni del territorio, la corona toccherebbe certamente al Catarratto: uva bianca tipicamente trapanese, caratterizzata dall’elevata acidità che esalta la freschezza aromatica e gustativa. I profumi non sono esplosivi come quelli del Grillo, ma sono più fini e delicati e ricordano i fiori bianchi. In bocca si presenta sapido e secco, ma di grande piacevolezza. La versione di Catarratto ‘Lucido’ – minore tenore alcolico e maggiore acidità – è quella che meglio caratterizza queste dolci colline e che si esprime variamente a seconda del terreno e dell’altezza. “Il mio sogno? Che un giorno si parli del ‘Lucido’ di Salaparuta”, mi confessa Luigi Restivo. E nella ‘Salaparuta Valley’ ci sono tutte le potenzialità perché ciò accada.

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