Ben Israel è il fondatore della Cybersecurity israeliana e dal 2018 dirige anche il progetto nazionale per l’Intelligenza Artificiale. È stato membro della Knesset dal 2007 al 2009 subentrando a Shimon Peres quando fu eletto Presidente dello Stato di Israele. Laureato in fisica, matematica e filosofia. È uno dei più importanti scienziati israeliani.

Perché Israele è da oltre dieci anni all’avanguardia nella ricerca internazionale globale in materia di intelligenza artificiale?
«È il risultato del continuo processo scientifico e tecnologico che caratterizza l’innovazione israeliana. La maggior parte di queste tecnologie ha origine nell’ecosistema civile (accademico e imprenditoriale, industriale e startups), con successive applicazioni al settore della sicurezza. Per quanto riguarda i risultati molto avanzati in ambito AI esso è derivato dalla nostra esperienza di successo nel campo della cybersecurity ed in particolare la ricerca di metodi in grado di identificare le azioni maligne senza violare la privacy dei cittadini. Privacy e sicurezza sono due pilastri della democrazia».

Qual è l’uso più utile dell’intelligenza artificiale nelle società odierne?
«Non esiste alcun campo della vita in cui AI non può essere utile. Sei anni fa ho preparato il piano AI del Governo e tra gli esempi più positivi posso citare il settore della sanità e dei trasporti. Per passare ad un campo molto diverso all’Università di Tel Aviv abbiamo studiosi che, applicando l’intelligenza artificiale ai testi biblici, hanno ottenuto risultati importanti nell’identificazione dei profeti che hanno contribuito alla stesura della Bibbia».

Professore cosa intende esattamente quando parla di AI?
«Il termine AI viene applicato a un ambito troppo ampio, ad esempio alla gestione dei dati che da sempre definiamo statistica. Per me, possiamo parlare propriamente di intelligenza artificiale solo quando essa include efficaci capacità di auto-apprendimento da parte dei computer».

Guardiamo ora l’altra faccia della medaglia. Quali sono i maggiori pericoli che l’IA porta con sé?
«L’intelligenza artificiale generativa se da un lato può aumentare significativamente l’efficienza e la produttività organizzativa, dall’altro è in grado di produrre con straordinaria accuratezza un’infinità di false narrazioni, ad esempio deep fake. Un paio di mesi fa ho ricevuto un video personalizzato di auguri di Capodanno da Leonardo di Caprio in perfetto ebraico. Peccato che non ho mai incontrato di Caprio in vita mia e che non sappia una parola di ebraico».

Queste tecniche di disinformazione che utilizzano AI sono state utilizzate dopo il 7 ottobre?
«Si ma con modalità diverse da quelle che ci aspettavamo. Dopo il 7 ottobre pensavamo che l’opinione pubblica internazionale sarebbe stata dalla nostra parte e che avrebbe condiviso l’opportunità di reagire al massacro. Ciò è accaduto per un breve periodo di tempo, ma poi l’immagine internazionale di Israele è cambiata rapidamente da vittima ad aggressore. Israele ha commesso alcuni errori e vorrei soffermarmi su quelli relativi alla comunicazione. Conoscevamo le capacità tecniche di disinformazione che avevano l’Iran e Hamas (sia a Gaza che in Europa), ma pensavamo – erroneamente – che il bersaglio della guerra informative saremmo stati noi. Quindi abbiamo stimato che le azioni di propaganda e di influenza non avrebbero avuto successo perché – al di là delle divisioni – per tutta l’opinione pubblica israeliana è chiaro chi è la vittima e chi è l’aggressore. Invece fin dall’inizio le campagne di disinformazione erano rivolte all’opinione pubblica internazionale che è molto meno informata sui fatti e quindi più facilmente influenzabile. Quando ce ne siamo resi conto era troppo tardi per porre rimedio alla situazione».

Perché di fronte alle campagne di disinformazione i tempi di reazione sono così importanti?
«Le azioni di influenza sono attività contro l’avversario che esistono fin dai tempi della Bibbia, ma si tratta di menzogne e inganni che oggi hanno un impatto incredibilmente più efficace proprio per l’eccezionale velocità della loro diffusione condotta dalle tecnologie AI. La potenza e la velocità delle comunicazioni sono tali che in dieci secondi si può cambiare la mentalità di milioni di persone. Da questa prospettiva per Israele è urgente ricostruire una comunicazione realistica e positiva con l’opinione pubblica mondiale».

Come si capisce quando si è vittima di campagne di disinformazione?
«La maggior parte delle persone pensa che si debba partire dall’analisi dei contenuti e procedere alla falsificazione delle fake news confrontandole con i fatti reali. In realtà, questo metodo non funziona perché è troppo lento e troppo complicato. Una risposta tempestiva ed efficace è possibile solo esaminando immediatamente le modalità con cui vengono diffusi i deep fake. Quando i contenuti raggiungono in pochi secondi milioni di target significa che vengono utilizzate false identità, avatar, bot, ecc. L’ipervelocità di diffusione è il segnale più importante per prendere contromisure immediate prima ancora di poter analizzare i contenuti».

Nei media mainstream mondiali, Israele non è rappresentato come un paese assediato. Qual è la realtà dei fatti?
«I numeri parlano da soli. Dal 7 ottobre a oggi, oltre 50mila missili e altri vettori dotati di esplosivo sono stati lanciati da Gaza, Libano, Yemen e Iraq contro la popolazione civile israeliana poiché gli attacchi non sono diretti a specifici target militari. Fortunatamente, abbiamo un’eccellente difesa aerea che ha intercettato e distrutto oltre il 90% dei missili. Lo stesso è accaduto quando l’Iran ci ha attaccato direttamente due volte ad aprile e ottobre. Su circa 600 vettori lanciati da basi iraniane (missili balistici, missili da crociera, ecc.) solo 5 hanno attraversato i confini dello spazio aereo israeliano».

In un ambiente così resiliente come si può spiegare l’attacco del 7 ottobre?
«Come ho sottolineato in altre occasioni, l’approccio di intelligence adottato non ha interpretato correttamente le informazioni e i segnali in suo possesso».

Ci sono somiglianze con gli errori commessi nel 1973 nella guerra dello Yom Kippur in cui morirono 3mila israeliani e in cui lei fu ebbe l’incarico di guidare le indagini per conto delle forze armate israeliane IDF?
«Sì, ho scritto volumi su quella vicenda e ci sono alcune somiglianze. All’epoca, furono osservate manovre e movimenti di truppe ai confini in Siria ed Egitto la cui importanza fu seriamente sottovalutata. La guerra ci colse di sorpresa con 150mila soldati israeliani contro un milione e mezzo di truppe siriane ed egiziane. Se le agenzie di intelligence avessero lanciato l’allarme in tempo, avremmo quantomeno potuto mobilitare più di 200mila riservisti e almeno ridurre la sproporzione delle forze».

E per quanto concerne il 7 ottobre?
«Il progetto di assaltare i kibbutz israeliani nelle vicinanze di Gaza era stato già stato ideato da Hamas più di dieci anni fa. Allora l’idea era di estendere la rete dei tunnel sotterranei oltre il confine. Il pericolo fu preso molto sul serio e fu realizzato un muro a grande profondità. A quel punto Hamas rinunciò, ma già tre anni fa si è saputo che Hamas intendeva riprendere il suo progetto, questa volta muovendosi in superficie. Ci arrivarono anche notizie specifiche di esercitazioni di Hamas con simulazione dei luoghi da assaltare. Nonostante questi segnali si è verificato un “Intelligence failure” non dissimile di quello del 1973».

Eleonora Tiribocchi

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