Bene il Mes ma l’Europa scopra le sue carte sui fondi

L’Eurogruppo di ieri ha preso importanti decisioni circa l’utilizzo che i paesi dell’Eurozona potranno fare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) nel fronteggiare la crisi economico e finanziaria che sta affrontando l’Europa. Le decisioni hanno rispecchiato pienamente le attese. Ogni Stato membro potrà aver accesso a dei prestiti a tassi agevolati (da quanto si è appreso il margine applicato al prestito sarà pari a 10 punti base annuali, più una commissione per il servizio “up-front” di 25 punti base, più una commissione per il servizio annuale pari ad altri 0,5 basis points), con durata fino a 10 anni, per sostenere spese sanitarie per un ammontare pari fino al 2% del proprio Pil.

I prestiti non saranno soggetti ad alcuna condizionalità, nonostante, in realtà, la condizionalità sta proprio nel fatto che le spese finanziabili saranno circoscritte a quelle sanitarie, non ancora specificate. Il meccanismo dovrebbe entrare in funzione a partire dal prossimo 1 giugno. Nessun ulteriore dettaglio di natura finanziaria relativo al prestito è stato fornito. E in finanza, si sa, il diavolo sta sempre nei dettagli. E, come abbiamo sempre ripetuto più volte, anche per il piano finanziario da oltre 2.000 miliardi di euro proposto dalla Unione Europea, formato dai famosi 4 pilastri d’intervento (MES, BEI, SURE e Recovery Fund ora diventato Recovery Initiative) i dettagli saranno la parte più importante da analizzare. Noi siamo sempre stati favorevoli a questo piano d’intervento di livello comunitario, ritenendolo una azione non soltanto efficace ma addirittura necessaria da parte dell’Europa, in nome di quel principio di solidarietà sulla quale è stata fondata. Per questo abbiamo visto sin da subito positivamente gli strumenti messi in campo, con le loro rispettive potenze di fuoco, sostenute dal bazooka della Banca Centrale Europea che, attraverso il suo programma di acquisto dei titoli di Stato (quantitative easing) da 750 miliardi di euro, è stata in grado di evitare l’aumento degli spread e la frammentazione del mercato dei sovereign bonds.

Dire di no a questo piano d’intervento per questioni meramente ideologiche, come ha fatto qualcuno, è controproducente e dannoso. L’essere europeisti e favorevoli a questo piano, non vuol dire tuttavia accettarlo a scatola chiusa. Come ogni operazione finanziaria che si rispetti, è opportuno prima vedere le carte sul tavolo, con la richiesta al premier Conte che le mostri a tutte le forze di maggioranza e opposizione in Parlamento. Se il principio di intervento è giusto e la quantità messa in campo sembra essere adeguata, occorre quindi capire come i vari pilastri finanziari saranno messi in campo. Da questo punto di vista, avevamo più volte lanciato delle domande alle quali l’Europa dovrà necessariamente dare risposta per poter attuare praticamente il piano. Le riassumiamo. Quante risorse destinare a ogni singolo pilastro? Sotto quale forma (“loan” oppure “grant”)? In quali tempi? Con quali condizioni? Con quali rendimenti? Con quali garanzie? Ecco, finora le risposte a queste domande non sono arrivate e questo sta rallentando, evidentemente, tutto il piano d’intervento, quando la tempestività è una delle caratteristiche necessarie affinché questo possa riuscire.

Tra tutti e quattro gli strumenti, quello che pare più pronto ad essere utilizzato è il Mes, essendo già stato costituito e capitalizzato. Anche se, relativamente alla sua dotazione, è doveroso sottolineare che, a fronte degli oltre 700 miliardi di capitale nominale sottoscritto e degli oltre 80 miliardi di capitale versato, in cassa l’istituzione ha, secondo l’ultimo bilancio approvato, relativo all’esercizio finanziario 2018, “soltanto” 65 miliardi di euro. Per arrivare agli oltre 200 miliardi previsti dalla regola del 2,0% del Pil dell’eurozona, come deciso ieri, occorrerebbe trovare circa altri 150 miliardi. A questo punto, delle due l’una. O il Mes viene ricapitalizzato dagli Stati membri per quella cifra, oppure si deve indebitare sul mercato, emettendo bond. Per emetterli deve prima sapere però quali stati faranno richiesta dei fondi e per quale ammontare. Su questo occorrerà tempo. Secondariamente, dovrà lanciare una o più emissioni sul mercato, con i bond prima assorbiti da un sindacato di collocamento e poi distribuiti tra gli investitori istituzionali che li vogliono acquistare (tra di questi, i soliti grandi fondi pensione, hedge funds, etc.).

Una volta che il collocamento sarà terminato, il Mes utilizzerà i proventi come prestiti ai singoli stati. Considerando che un collocamento sul mercato richiede in media 11 settimane, è evidente che occorreranno altri mesi per avere questi soldi a disposizione. Anche perché le emissioni non sono mai scontate, ed emettere 150 miliardi di bond non è uno scherzo, nemmeno per una istituzione sovranazionale con rating tripla A come il Mes. In altre parole, la domanda per questo tipo di strumenti finanziari, che poi si configurano come dei quasi-sovereign bond non è affatto garantita, considerando che lo strumento si metterebbe in competizione diretta con i bund tedeschi, che hanno un profilo di rischio/rendimento analogo, se non migliore, e con gli strumenti emessi da altre istituzioni internazionali (World Bank, Adb, Bei), che su questi collocamenti hanno sicuramente più esperienza e offrono rendimenti maggiori.

C’è da considerare, infine, che essendo prestiti, l’ammontare dovrà essere restituito dagli stati che li hanno ricevuti. Con quale tasso, con quale scadenza, a partire da quando non è noto. Ne potrebbe esserlo ad oggi, dal momento che questo dovrebbe essere concordato con la Commissione Europea, secondo i principi stabiliti dal trattato istitutivo del Mes. Restituire i prestiti significa, inoltre, per lo Stato ricevente, indebitarsi negli anni successivi, collocando titoli di Stato pari all’importo da restituire. Anche in questo caso a rendimenti d’emissione che dipenderanno dalle condizioni di mercato di quel momento le quali potrebbero anche essere non favorevoli.

Per tutti questi motivi, è importante che il Governo chieda, nelle prossime riunioni europee, di vedere bene le carte e di capire bene le regole del gioco. Ai tavoli europei siedono, per gli altri paesi, ex direttori delle principali banche d’affari internazionali ed esperti di finanza privata, ovvero gente che sa di cosa parla. Per questo motivo, occorre altrettanta competenza e capacità di capire la validità delle proposte in campo. Motivo per cui, coinvolgere tutto il Parlamento nel processo decisionale è assolutamente indispensabile.