La riforma Cartabia ha incontrato strada facendo un nugolo di oppositori, più o meno autorevoli. L’accademia processualistica e quella penalistica sono praticamente insorte contro la proposta di costruire un sistema “misto” che faccia operare la prescrizione sino alla sentenza di primo grado e, poi, carichi il metronomo del processo per la fase dell’appello e della cassazione. A sua volta una parte delle toghe inquirenti ha sollevato preoccupazioni paventando il rischio che la “sicurezza” della Repubblica possa essere messa a repentaglio dal regime dell’improcedibilità in appello e nella sede della legittimità. Si dice che siano troppo ristretti i termini previsti dalla ministra (due anni più uno in appello e un anno più sei mesi in cassazione) per evitare che mafiosi e terroristi vedano spalancarsi la via dell’impunità a cagione dei carichi di lavoro accumulati in alcune corti d’appello. (Non è così, come ha ben ricordato il consulente più autorevole del ministro della Giustizia, tenuto conto che per quei processi opera il rito “accelerato” della custodia cautelare, ma passi).
Se nel primo caso, quello delle cattedre, è la purezza e la coerenza del sistema processuale e penale a risultare minacciata, nel secondo è la preoccupazione dei pubblici ministeri che i processi si dilatino oltre i tempi previsti dalla riforma e che ciò possa determinare l’improcedibilità dell’azione penale e la conseguente impunità del reo.
Queste le posizioni a occhio e croce.
Diradata la polvere sollevata dal cannoneggiamento concentrico su via Arenula, alcune questioni sono rimaste in ombra. La ministra Cartabia, in sede di conferenza stampa congiunta con il premier, alla precisa domanda di cosa si intendesse fare per arginare il fatto che il 70 % e rotti delle prescrizioni sono equamente suddivise tra le indagini preliminari e primo grado, ha risposto, con grande onestà intellettuale, che il problema sussiste e che la legge vuole anche porvi rimedio.
Troppo poco, dirà qualcuno; oppure, si chiederà qualcun altro, perché non intervenire anche su questo fronte? Si era pensato a qualche blando rimedio con la riforma Orlando del 2017 nel tentativo di indurre i pubblici ministeri a rispettare i termini delle indagini preliminari e a evitare lunghissime stasi dei fascicoli presso gli uffici di procura ove si consuma la prima metà di quelle prescrizioni e si mettono le basi per la seconda metà. Ma è andata male. Anche la riforma Cartabia tenta di intervenire sul punto (articolo 3) con una serie di accorgimenti, di stimoli e di controlli. Difficile prevedere se saranno sufficienti a imbrigliare i pubblici ministeri più riottosi e quelli che sono inclini a considerare la prolungata qualità di indagato una sanzione ben più certa e immediata di un processo che giammai si potrebbe portare a buon fine. Ecco, forse, non tutti sanno che esiste, e dal 1989, una fase del processo regolata da precise scansioni temporali e questa è la fase delle indagini preliminari. Se la riforma Cartabia dovesse passare, come pare, con la regola dell’improcedibilità in appello e in cassazione, l’unica zona franca del processo penale che resterebbe, cioè, esente da cadenze temporali precise è quella del giudizio di primo grado che – secondo la riforma Bonafede non scalfita dal progetto del governo Draghi – ha a propria disposizione tutto il tempo della prescrizione del reato per potersi utilmente concludere. Mentre resterà praticamente inespugnabile il fortino delle indagini preliminari con un pubblico ministero arbitro sostanziale della loro durata.
A questo punto è evidente che, salvo censure sempre possibili da parte della Corte costituzionale, il processo penale si muoverebbe secondo queste cadenze temporali: le indagini, all’incirca, a forza o a ragione, a colpi di istanze se necessario, si dovrebbero concludere in un certo tempo già fissato dal codice di procedura penale e modificato in qualche misura dalla riforma Cartabia. Con l’avviso di conclusione delle indagini e con il rinvio a giudizio il tempo del processo smette di correre e si congela sino alla sentenza di primo grado. Unica scadenza che incombe sul giudice è che questa sentenza arrivi prima che il reato si prescriva; poi la novella in discussione prevede tempi per l’appello e la cassazione come detto.
Per quale ragione il giudizio di primo grado debba andare esente da una predeterminata scansione temporale non è ben chiaro, oppure lo è se si volge lo sguardo al muro che è stato sollevato a difesa della riforma Bonafede. La politica esige compromessi e non è questo il punto. Tuttavia, tenuto conto dei carichi di lavoro enormi – soprattutto nel primo grado innanzi al giudice monocratico – è ragionevole ritenere che questo regime produrrà un rallentamento complessivo della celebrazione dei procedimenti con l’intuibile (e comprensibile) tentazione per i giudici di primo grado di spostare in avanti i tempi di definizione del processo sino al limite della prescrizione. Oggi, per i reati commessi prima del 1 gennaio 2020, la minaccia che il tempo consumato in primo grado, a scapito dei gradi successivi, incombe sul giudice che deve tener conto dell’evolversi dl processo almeno in sede di appello se non vuole consegnare un cadavere al giudice dell’impugnazione; per i reati commessi dopo il primo gennaio 2020 la prospettiva è mutata.
Si dirà che questa è la distorsione che deriva dalla legge Bonafede e alla quale la riforma Cartabia intende porre rimedio. Vero, ma sino a un certo punto. Perché se è chiaro, come ha sostenuto con forza la ministra, che lo status quo non può essere conservato è anche evidente che il “buco” temporale lasciato in relazione al processo di primo grado appare potenzialmente in grado di allungare di altri tre anni (minimo) quella che comunque potremmo chiamare la durata della prescrizione del reato; soprattutto se il giudizio di primo grado va per le lunghe e tarda a prescindere da qualunque “truffa dele etichette” che tanto agita la scienza giuridica. Alla fine la proposta in discussione appare come il minimo che si possa esigere a fronte di un assetto attuale che privilegia in modo sproporazionato e irragionevole la fase delle indagini e del processo di primo grado; resta da assoggettare anche questo segmento alla clessidra della ragionevole durata che non può essere quella della prescrizione del reato. Paradossalmente, a conti fatti, la tesi rigorista di chi sostiene che, esercitata l’azione penale, il reato non si debba prescrivere è la più corretta a patto che da quel momento cominci decorrere, inesorabile e certo, il timing del processo.