Ieri il Consiglio Europeo, su proposta della Commissione ha deciso di dare attuazione alla Direttiva 2001/55/CE al fine di garantire una “protezione temporanea” agli ucraini in fuga dalla guerra. Che cos’è questa protezione temporanea? Come indicato dalla stessa Direttiva si tratta della “procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, una tutela immediata e temporanea” (art.2).
La Direttiva ha due scopi fondamentali. Il primo è di evitare che un enorme numero di persone nella medesima condizione (fuga dal conflitto) siano inutilmente sottoposte ad un esame individuale della loro richiesta di protezione creando una paralisi delle procedure amministrative anche nello stato dell’Unione meglio organizzato e, parallelamente, fare in modo che i profughi possano subito “godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione che conferiscano un livello di protezione adeguato, comprendente titoli di soggiorno, la possibilità esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo e di essere adeguatamente alloggiati, la necessaria assistenza sociale, medica o di altro tipo e contributi al sostentamento”.
Il secondo, non meno rilevante, obiettivo della Direttiva, è fare in modo che gli Stati accolgano “con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea [e che indichino] la loro capacità d’accoglienza in termini numerici o generali”. Sulle modalità con cui dare attuazione a questo principio di solidarietà la Direttiva rimane del tutto generica, precisando solo che le indicazioni sulla capacità di accoglienza date da ogni Stato “sono inserite nella decisione” con cui il Consiglio Europeo dichiara, a maggioranza qualificata, che ricorrono le condizioni per l’applicazione della Direttiva. L’attento lettore avrà forse pensato che l’indicazione dell’anno “2001” nel fare riferimento alla Direttiva sia frutto di un errore di battitura e che mi sto riferendo a una norma del 2011 o forse del 2021.
Invece confermo che l’anno di adozione della norma fu proprio il 2001 trattandosi di una Direttiva che, come ricorda la stessa Commissione UE nel proporne oggi l’applicazione, era stata “adottata all’indomani del conflitto nell’ex Jugoslavia, quando per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale l’Europa si era trovata di fronte a numeri massicci di sfollati [e che] era stata concepita specificamente per promuovere un equilibrio degli sforzi per gestire congiuntamente gli spostamenti massicci di sfollati all’interno dell’Europa”. Se consideriamo che la Direttiva 55/2001 si colloca nella primissima fase del processo di costruzione di un sistema unico di asilo in Europa, essa non va criticata per la sua vaghezza sul funzionamento delle procedure di solidarietà. Semmai va vista in essa una lungimiranza che negli ultimi anni nella Ue si è affievolita fino a spegnersi del tutto, lasciando spazio a una cupa situazione nella quale non solo il principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati nella gestione dei rifugiati non si è rafforzato, bensì gran parte degli Stati Ue (blocco di Visegrad ma non solo) ha fatto della contrarietà radicale alla solidarietà la propria bandiera politica e ha spinto l’intera Unione su posizioni di chiusura sempre più estreme che ho avuto modo di illustrare in diverse occasioni su queste pagine.
Fare stime di quanti sfollati provocherà il conflitto in Ucraina è impossibile perché ciò dipenderà dall’evolversi degli eventi, ma la Commissione Europea stima come “possibile una cifra compresa tra 2,5 e 6,5 milioni di sfollati a causa del conflitto armato, da 1,2 a 3,2 milioni dei quali potrebbero chiedere protezione internazionale”. L’attivazione della protezione temporanea e l’avvio quanto prima di un piano europeo di accoglienza che comprenda anche quote di ripartizione tra i vari stati è dunque una scelta non solo adeguata ma assolutamente necessaria. La protezione riguarda, come è ovvio, tutti i cittadini ucraini fuggiti dopo il 24 febbraio 2022 in conseguenza del conflitto e i loro famigliari, e viene estesa anche ai parenti stretti (cittadini ucraini o non) che vivevano insieme al nucleo famigliare al momento del conflitto e che erano “parzialmente o totalmente dipendenti” dallo stesso. La Commissione ha altresì proposto che la protezione temporanea sia estesa anche ai cittadini non ucraini ma di paesi terzi che soggiornavano legalmente in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel loro paese o regione di origine. Si tratta di proposte pienamente condivisibili e conformi alla ratio giuridica che è a fondamento della protezione temporanea quale misura provvisoria e di immediata attuazione finalizzata a coprire una vasta collettività.
In modo sorprendente (o forse non troppo) i paesi Ue del gruppo di Visegrad più l’Austria hanno contestato in sede di Consiglio l’estensione della protezione temporanea a cittadini non ucraini rendendo incerta fino all’ultimo minuto la procedura di attivazione stessa della Direttiva e comunque raggiungendo l’obiettivo di restringere la proposta iniziale della Commissione. Certo, a cittadini non ucraini che vivevano in Ucraina rimane comunque, inalienabile, il diritto di presentare una domanda di asilo alla frontiera esterna dell’Unione (in questo modo però l’effetto paradossale è che tutti gli stranieri finirebbero per concentrarsi nei primi paesi di ingresso) ma poco si comprende, su un piano razionale, quale oscuro timore sia stato alla base di questo ennesimo tentativo di chiusura così eticamente urticante. Forse che sia necessario agire valorosamente per impedire che gli stranieri che vivevano in Ucraina con perfida sagacia “approfittino” della guerra e della protezione temporanea per venire a insediarsi in massa nell’Unione europea?
Questa sorta di ossessione alla chiusura verso i non europei che non trova pace neppure in tempo di guerra mi porta all’ultima ma più importante considerazione: la Direttiva 2001/55/UE era considerata fino ad oggi, a ragione, una sorta di norma nata morta e destinata ad essere abrogata con il pacchetto di riforme presentato dalla Commissione in carica. Questa sua triste storia di norma mai applicata per ventun anni non dipende affatto dalla circostanza che in questi decenni non si sia mai verificato in Europa un “afflusso o imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine”. Al contrario, tale situazione si è verificata in più occasioni a seguito delle quali l’applicazione della Direttiva è stata incessantemente invocata da studiosi ed associazioni. Solo ultime in ordine di tempo vanno ricordate la crisi siriana della metà del decennio scorso e il tracollo dell’Afghanistan dell’estate 2021. Si potrebbe obbiettare che nel caso afgano (come in altri casi) questo afflusso massiccio diretto verso l’Europa non v’è stato.
Vero, ma ciò è avvenuto in ragione delle politiche di esternalizzazione dell’Europa che hanno bloccato e confinato un enorme numero di rifugiati in paesi terzi pagando un prezzo altissimo sia in termini strettamente economici e politici (compreso l’appoggio a regimi autoritari) che di compressione e persino negazione radicale dello stesso diritto d’asilo. Una pagina nera della storia europea che doveva e poteva essere evitata e, tal fine, sottolineo un’altra notevolissima caratteristica di questa Direttiva volutamente messa in un angolo e dimenticata: la nozione di afflusso massiccio vi viene così definita: “L’arrivo nella Comunità (oggi Unione ndr) di un numero considerevole di sfollati, provenienti da un paese determinato o da una zona geografica determinata, sia che il loro arrivo avvenga spontaneamente o sia agevolato, per esempio mediante un programma di evacuazione”. La Direttiva era stata concepita dunque non solo per rispondere a un arrivo diretto di sfollati, come è ora il caso ucraino, ma per gestire le crisi internazionali di rifugiati da affrontare anche attraverso programmi di evacuazione verso l’Europa connotati da alti numeri.
Perché tutto ciò non è stato mai attuato e si è sostenuto a lungo che alcune scelte fossero impossibili, quando invece erano e sono fattibili e già si disponeva di uno strumento giuridico, anche se imperfetto e un po’ desueto, per realizzarle? Tanti, troppi, hanno preferito non agire lasciando degenerare il sistema di asilo in Europa, accusando come ragione l’ondata nazionalista e xenofoba che ha cercato, spesso con successo, di bloccare tutto. Ma la realtà è che a questa ondata ci si è piegati culturalmente fino quasi a farne parte. L’attivazione della Direttiva sulla protezione temporanea – sua ultima eccellente ma sconosciuta caratteristica – non richiede affatto l’unanimità ma solo la cosiddetta maggioranza qualificata degli Stati membri. Un requisito non facile ma affatto impossibile da raggiungere, se si fosse voluto, in molte circostanze; però non si è voluto, così che la responsabilità della resa alla gestione delle crisi e alla difesa dei diritti umani non è attribuibile solo agli stati “cattivi” ma è molto più diffusa.
La triste storia della Direttiva 55, che forse rinasce proprio sul finire dei suoi giorni, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un’Europa che si è sempre più allontanata dai suoi valori fondanti. La sua tardiva applicazione, di cui, per ironia della storia usufruiranno proprio quei paesi dell’Europa dell’Est che più hanno messo in atto politiche estreme, deve rappresentare un segno di cambio di direzione rispetto alle proposte sbagliate avanzate dalla Commissione nel cosiddetto Patto per l’immigrazione del settembre 2020, per tornare a fondare il sistema comune di asilo su un effettivo rispetto del principio di solidarietà e di condivisione delle responsabilità.