Il professor Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi, è convinto: «Lo spazio per un polo liberaldemocratico in Italia c’è, ed è oggi più grande di prima». Lo raggiungiamo uscendo dagli studi de La7 dove ha appena alzato la voce contro parlamentari di maggioranza sulle riforme troppo spesso annunciate e poi demandate nel tempo.

Le tre riforme, autonomia, premierato e separazione carriere, sono palle calciate in tribuna?
«Noi abbiamo tre riforme che sono sub judice a tre referendum. L’autonomia è una legge ordinaria, dunque sarà sottoposta a referendum abrogativo. Gli altri due, leggi costituzionali, saranno sottoposti a referendum confermativi. Il primo referendum sarà nella primavera 2025. Sono molto scettico sulla possibilità che raggiunga il quorum, e fallirlo sarebbe un boomerang per le opposizioni. E in ultima istanza un favore alla maggioranza di governo, che ne esce rafforzata».

E gli altri due referendum, quelli costituzionali?
«Nell’unica ipotesi possibile andranno in votazione nel 2026. Sento fantasticare dell’ipotesi di votarli insieme alle politiche del 2027. Non ci credo. Ed è già difficile che il referendum cada in questa legislatura».

Ci fa capire?
«Semplice. Ci vogliono almeno quattro letture, con la distanza di tre mesi e il rispetto dei tempi previsti dalla Costituzione. Si andrà avanti per tutto il 2025. Nessun referendum può quindi arrivare prima del 2026».

Come vanno a finire?
«Se sull’autonomia posso avere qualche dubbio, sui due referendum costituzionali non ne ho. Quello sul premierato è sicuramente perso, per la maggioranza. E quello sulla separazione delle carriere è sicuramente vinto. Perché c’è un 70% di consensi stabili intorno alla convinzione che la giustizia vada riformata, da Pannella in avanti si è sempre confermata questa stessa tendenza».

Nelle more delle ipotetiche riforme e dei referendum recalcitranti, va cambiata la legge elettorale…
«Non si può andare ad approvare il premierato senza una nuova legge elettorale. Non so dove si andrà a finire ma è chiaro che lì ci saranno accordi e maggioranze assai trasversali. I segnali di qualche intesa si possono già cogliere».

Sul garantismo, sulla separazione delle carriere, può esserci un’intesa tra centristi, liberali e moderati che dia vita a una maggioranza che vada da un Pd riformista a Forza Italia?
«Non lo credo. Non sarà possibile perché viviamo una doppia debolezza. Quella della destra e quella della sinistra. Forza Italia è organica al perimetro del centrodestra, parola che non mi piace perché intraducibile in termini politici europei ma che ha inventato Silvio Berlusconi e dunque è nella loro constituency. La sinistra ha un riflesso pavloviano legato al ruolo sacrale che attribuiscono alle toghe: quando la magistratura associata dice no, per il Pd è no. Dunque di quale fronte garantista parliamo?».

Non rimane che il centro. Se trovasse una sua forza endogena.
«Il centro è qualcosa che dovrebbe vivere di vita propria, se guardiamo a quello che succede nel resto d’Europa. Fdp in Germania si presenta con il suo programma e poi valuta, dopo il voto, eventuali alleanze. Sa qual è il paese con il sistema elettorale più genuinamente bipolare? Quello che ha l’uninominale secca di collegio? Il Regno Unito. Tories contro Labour. Ma al centro si presentano i Libdem e attualmente hanno 70 seggi in Parlamento. Poi c’è Macron in Francia, Rutte in Olanda, Tusk in Polonia…».

Sì, d’accordo, professore. Ma allora perché qualcuno si è convinto di non poter più perseguire un progetto liberaldemocratico e riformista fuori dai poli?
«Non lo so, non lo capisco. Scusi: se due anni fa siamo andati a votare e il terzo polo ha preso l’8% e poi tre mesi fa siamo tornati a votare e, pur avendo consumato rotture e litigi le stesse idee, gli stessi programmi hanno ricevuto il 7% dei voti, cosa vuol dire? Che quell’elettorato esiste. E tutti gli istituti di sondaggi confermano che un 10% degli italiani si colloca su posizioni liberali».

Cosa vede nel futuro?
«Una disarticolazione dei due poli. Inevitabile, nonostante gli aiuti che riceveranno da partiti e partitini. La maggioranza sarà erosa dall’esito dei referendum e dai conti pubblici. La manovra 2025 sarà molto difficile. Quella del 2026, a quanto dicono gli analisti meglio avvertiti, praticamente impossibile».

Oggi il Cdm ratifica l’indicazione di Fitto come commissario europeo. Poi la palla dei conti passa a Giorgetti.
«E ne sono felice, quella di Raffaele Fitto è la migliore scelta che si potesse fare. Sarà un buon commissario, ma a prescindere da quella che sarà la sua delega deve mettersi a correre per evitare l’isolamento dell’Italia in Europa e le magre figure sulla concorrenza, a partire dai balneari. Giorgia Meloni nel suo bel discorso di insediamento aveva detto: “Il mio governo non disturberà chi lavora”. Forse voleva aggiungere: “Chi lavora col taxi”».

La preoccupa la congiuntura economica in arrivo, mi sembra di capire.
«Mi preoccupa se per fare cassa si toglie reddito alle famiglie, abbassando consumi e propensione al risparmio. Vanno riletti i classici e proprio per questo stiamo ripubblicando John Stuart Mill, Einaudi e Malagodi. Sa cosa diceva Malagodi, in “Massa, non Massa”? Che serve il salario minimo. Che dare assistenza mirata e puntuale è il contrario di fare assistenzialismo a pioggia. Un polo liberaldemocratico in Italia può ripartire parlando a tutti, a partire dalla classe media».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.