Benini: “Serve un metodo riformista, al di là di schieramenti o partiti di riferimento. Spazio alle migliori energie”

In Italia l’area riformista è piuttosto ampia, ma fatica a essere occupata da una politica che deve fare i conti con due ostacoli principali: da una parte la nazione «si è abituata e assuefatta al “vincolo esterno”»; dall’altra c’è chi si oppone «a ogni forma di cambiamento che possa compromettere la propria condizione». Spesso si punta il dito contro il bipolarismo (che in realtà è un’illusione), ma – fa notare Romano Benini – i partiti più radicali hanno trovato sempre più spazio anche a causa della «rincorsa al “progetto di centro” autonomo e autoreferenziale» che nella nostra storia recente «non ha funzionato». Il nostro paese, sostiene il docente di Politiche pubbliche del lavoro, è al bivio: «O si diventa riformisti o si perseguono gli interessi di chi non vuol cambiare». La priorità è chiara: promuovere un «metodo riformista» trasversale a ogni schieramento politico per «sbloccare l’Italia e le sue potenzialità».

Il fallimento del centro alle elezioni europee è solo la punta dell’iceberg. Basti pensare alle radici storiche, ai limiti di governo e di opposizione degli anni Novanta. Siamo un paese riformista?
«Non credo sia corretto sovrapporre l’idea di riformismo all’area politica del “centro”. Il riformismo è soprattutto un metodo attraverso cui fare politica. Il riformista opera per il cambiamento tenendosi lontano dalle ideologie, dagli estremismi, attento alla soluzione dei problemi e a dare concretezza al ruolo della politica. La pratica riformista colloca la politica nella sua corretta funzione, ossia come strumento. Non prevede nessun compiacimento nell’occupazione di spazi di potere, ma lo svolgimento di un servizio in cui mettere a disposizione le proprie competenze per un ideale di cambiamento. In Italia il metodo riformista ha fatto più fatica ad avanzare nella politica, perché si è trovato e si trova di fronte a diversi avversari».

Perché il riformismo continua a essere minoritario in Italia?
«Per almeno due ordini di motivi, che hanno anche un carattere storico. Il primo è che siamo una nazione che si è abituata e assuefatta al “vincolo esterno”, ossia al fatto che non siamo completamente liberi nelle nostre scelte e quindi saremmo per questo motivo anche meno responsabili del nostro destino. C’è la convinzione in buona parte della popolazione che da noi cambiare sia molto difficile, anche per la persistenza di vincoli che riguardano per esempio la politica estera o quella economica. Vincoli che indubbiamente ci sono stati e ci sono, ma che costituiscono anche un facile alibi per non decidere. Poi c’è una resistenza interna molto forte che è costituita dalla presenza nel nostro paese di forti “oligarchie della rendita”, ossia di componenti organizzate presenti nell’economia e nella società che godono di una “rendita di posizione” dovuta all’appartenenza a una specifica categoria e che tendono a opporsi a ogni forma di cambiamento che possa compromettere la propria condizione. Queste componenti sono molto presenti nella nostra società e contribuiscono a far eleggere molti parlamentari, influenzando i partiti».

Le principali colpe ricadono sul bipolarismo italiano, ma in realtà è solo un’illusione: gli estremi si rafforzano perché al centro manca una vera offerta politica…
«Il bipolarismo è una aggregazione tra forze diverse che è favorita da questo sistema elettorale, ma questa spinta all’aggregazione fa parte di molti modelli presenti in Europa e nel mondo e aiuta al funzionamento della democrazia e per evitare la frammentazione. Una aggregazione tra le componenti riformiste presenti nella politica potrebbe “far pesare” di più il metodo riformista nelle diverse coalizioni, ma se questa aggregazione non c’è i riformisti vanno a distribuirsi ovunque».

L’equivoco di fondo resta lo stesso: come si fa a creare un progetto di centro se i riformisti litigano tra di loro e i veti si moltiplicano giorno dopo giorno?
«La rincorsa al “progetto di centro” autonomo e autoreferenziale nella nostra storia recente non ha funzionato e anzi ha dato ulteriore spazio al bipolarismo, fin dalle elezioni del 1994. Con questo sistema elettorale credo che continuerà a essere così. Non dobbiamo però pensare che il metodo riformista di cui parlavo si esaurisca nelle forze dell’attuale “centro politico” italiano attualmente in difficoltà di consenso. Evidentemente c’è un elettorato che ha visto il cambiamento e il metodo riformista porsi anche altrove».

«Riformismo» è una parola ampia. Chi si professa riformista ne conosce davvero il significato?
«Riformista è un termine ampio perché identifica un metodo con cui agire in politica. Un metodo impegnativo e rigoroso, che prende significato solo se si affianca a un sostantivo che indica la direzione, la tendenza politica alla quale dà sostanza».

In effetti «riformista» rischia di essere un aggettivo privo di significato se non lo si pone al fianco di un concetto più definito. Anche perché è una vocazione che non appartiene solo a uno schieramento politico.
«Intendevo proprio questo. Storicamente esisteva in Italia un “socialismo riformista” che aveva scelto la democrazia e che si opponeva al socialismo legato all’ideologia marxista. Al tempo stesso esiste un approccio riformista anche nell’area cattolica e nella destra. Il riformismo è soprattutto il coraggio di fare scelte che possono essere rischiose anche rispetto al proprio campo di appartenenza, se sono utili all’interesse generale del paese. Credo che sarebbe un bel segnale se tutta la politica italiana riflettesse oggi su quale sia “l’interesse comune nazionale” da sostenere in questa difficile transizione. Il Jobs Act per esempio è stata dieci anni fa una misura di ispirazione riformista, perché metteva in discussione i canoni prevalenti nelle politiche del lavoro nel momento in cui questi non rispondevano più agli interessi generali del paese. In questo senso anche la proposta del “premierato” esprime un approccio riformista, stavolta declinato da destra».

Eppure nel nuovo Partito democratico a guida Elly Schlein i riformisti sembrano soffocati…
«Quando si punta ad allargare il consenso è più facile scegliere la via della semplificazione della proposta politica; poi quando si governa – come abbiamo visto con i Cinque Stelle – tutto diventa più difficile perché per governare una società complessa in una fase di transizione come questa o si diventa riformisti o si perseguono gli interessi di chi non vuol cambiare, che sono ben presenti in tutti gli schieramenti e dialogano con tutti i partiti».

Lei invita a prestare attenzione a non declinare il riformismo in ragione della maggiore o minore prossimità al neoliberismo. Ci spieghi meglio.
«In questi ultimi anni è andato in crisi a livello globale un modello economico che ha per decenni influenzato la politica. Mi riferisco al neoliberalismo, ossia alla dottrina in base alla quale le ragioni della politica e della società vengono subordinate a quelle dell’economia, soprattutto a quelle della finanza globale. Molti esponenti del “riformismo” di casa nostra, stimolati magari da ambienti internazionali, mi sembra che abbiamo pensato che aderire a questa “ideologia economica” significasse esprimere posizioni riformiste. In realtà fare riforme in grado di parlare al paese significa non aderire a modelli ideologici, soprattutto se questi non hanno molto a che vedere con la nostra cultura. Al tempo stesso aprirsi a posizioni più liberali e ostacolare le rendite di posizione tanto presenti nel nostro paese costituisce la via maestra per far ripartire l’ascensore sociale e fare innovazione».

L’incapacità del centro di giocare un ruolo da protagonista è una sorte ormai irreversibile o c’è speranza per i riformisti italiani?
«Io penso che sia innanzitutto fondamentale che si diffonda nella politica italiana un “metodo riformista”, di cui abbiamo bisogno soprattutto per liberare e dare spazio alle migliori energie del paese in una fase di cambiamento e di transizione come quella attuale. Dobbiamo dare riferimenti all’Italia del “fare” più che a quella dello “stare”, all’artigiano più che al cortigiano. Questo metodo non ha un partito di riferimento, ma aggrega sulle decisioni più utili per sbloccare il paese e le sue potenzialità. La politica italiana è per sua natura sempre in movimento e mi sembra di vedere anche in questa fase che i diversi riformismi non stanno comunque fermi, ma provano a riaggregarsi e a fare proposte. Ovunque siano collocati».