Se Bergamo è il centro dell’emergenza sanitaria, è molto probabile che Napoli lo sarà di quella sociale. Facile previsione, si dirà. E invece no, perché se questa è stata la città del contrabbando come ammortizzatore sociale e delle liste di lotta dei disoccupati organizzati, è vero anche che da qualche tempo de Magistris la indicava come l’espressione di una modernità non effimera, mentre altri (Fico e Di Maio) avevano già provveduto ad abolirne la povertà grazie al reddito di cittadinanza. Per questa ragione, chi faceva notare che Napoli era in realtà rimasta la città più “diseguale” d’Italia, quella con più distanza tra i quartieri ricchi e le aree povere, si beccava in risposta, al massimo, un’alzata di spalle. Ora, però, che l’emergenza sanitaria sta mettendo a nudo le debolezze strutturali dell’intero Paese, ecco che la sostanza rischia di venire drammaticamente a galla, specialmente nelle aree più esposte.
Addirittura di parla di rivolte in tutto il Mezzogiorno, di assalti ai nuovi forni, cioè ai supermercati, e di strategie eversive ordite dalla camorra. Quanto reale sia questo quadro, quanto sia frutto di uno schema mentale “nordista”, e quanto sia invece montato ad arte, in chiave “sudista”, per “battere cassa” o mettere le mani avanti, è difficile dirlo. Sta di fatto che Napoli è impreparata a reggere la prossima sfida. Da qui le prevedibili tensioni. Ora si tratta di distribuire i pochissimi fondi – 400 milioni per 8100 Comuni – messi a disposizione dal governo per tamponare le situazioni familiari più difficili, lì dove non ci sono neanche i soldi per la spesa.
La distribuzione dovrà venire in fretta ed evitando sprechi, ingiustizie e guerre tra poveri. Ed ecco il punto. Come farlo, se il sindaco non conosce la sua città? In modo particolare, non conosce la sua componente più debole per reddito, cultura, disagio e marginalità sociale? Nei Paesi in cui il tasso di disoccupazione è molto basso, vedi la Germania, è facile intervenire nei casi di emergenza. Se l’operaio perde il lavoro, per dire, scatta subito la cassa integrazione e ciò basta a tendere una rete protettiva abbastanza ampia per tutti. Ma nell’Italia dei precari, del sommerso e degli impieghi in nero, la cassa integrazione non basta.
E qual è, in Italia, la città più precaria, più disoccupata, più “al nero“ se non Napoli? Questa città avrebbe dovuto dotarsi di un suo particolare sistema protettivo, fatto di servizi sociali agili e ben coordinati, di banche dati, di connessioni funzionali ad altri enti di assistenza. Invece, proprio questo settore della macchina comunale, poco da vetrina e molto da retrobottega, fa acqua da tutte le parti. I servizi si reggono più sulla generosità di singoli che sulla forza della struttura comunale. Figuriamoci ora che oltre ai poveri tradizionali bisognerà pensare anche a quelli che lo sono diventati di colpo – e si spera temporaneamente – per effetto del lockdown.
In poche ore bisognerà mettere in piedi una struttura operativa capace di individuare criteri, di stabilire priorità, di decidere se penalizzare chi, tra gli autonomi, ha pagato più tasse, o chi le presumibilmente le ha evase, e di farlo assumendosene per intero la responsabilità. Più facile, c’è da scommettere, sarà urlare ai quattro venti che i soldi a disposizione sono pochi. Il che è vero. E Conte ci ha provato a confondere le acqua dicendo oltre ai 400 milioni già stanziati c’erano anche i 4,3 miliardi del fondo di solidarietà comunale (in realtà solo un’anticipazione). Ma intanto la sfida è qui e ora. Inutile perdersi in chiacchiere.