Berlusconi, dal sistema bipolare al fallimento delle riforme costituzionali: forse non ci credeva

Difficile dubitare: Silvio Berlusconi ha forgiato il sistema politico italiano emerso dal crollo del Muro di Berlino e dalle macerie di Tangentopoli. La Prima Repubblica si fondava su una “democrazia bloccata”. Da una parte, c’era la Dc, perno del sistema, legittimata a governare dall’appartenenza allo schieramento euro-atlantico. Dall’altra parte, il Pci, al quale era sostanzialmente inibito l’accesso al governo proprio a causa della guerra fredda tra l’est e l’ovest. L’Italia, così, è l’unico paese europeo occidentale nel quale è interdetta una fisiologica democrazia dell’alternanza.

La crisi che comincia negli anni Settanta è pertanto la crisi di quella “Repubblica dei partiti” (espressione di Pietro Scoppola) che dopo aver garantito pace e prosperità, in mancanza di alternanza, declina progressivamente nel consociativismo che si alimenta al prezzo di un debito pubblico sempre più insostenibile. Il quadriennio 1989-1993 diventa decisivo. La guerra fredda si chiude con la vittoria del blocco occidentale. I referendum elettorali sanciscono l’archiviazione del meccanismo proporzionale che garantiva il funzionamento della Prima Repubblica.

Mani Pulite aggredisce la cancrena corruttiva di un sistema politico cristallizzato per decenni. Silvio Berlusconi “scende in campo” proprio all’apice di questo sconvolgimento, il 26 gennaio 1994. In breve, riesce a compiere un capolavoro politico. Proprio quando il crollo della Dc e del Psi lascia campo libero al Pds frutto della ‘svolta’ di Occhetto (che non a caso vince la prima tornata di elezioni comunali con il nuovo modello dell’elezione diretta dei sindaci), Berlusconi fonda dal nulla un partito che rianima il centrodestra dello schieramento politico italiano e che abilmente colloca nel gruppo del partito popolare europeo.

Appena l’anno prima aveva ‘sdoganato’ il Msi (che poi diventerà An) appoggiando Gianfranco Fini alle elezioni comunali di Roma. Infine, tende la mano alla Lega Nord, attirando e imbrigliando Umberto Bossi in una logica coalizionale, non senza difficoltà. Molto più facile l’operazione con il Centro cristiano democratico, fondato da Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, epigoni moderati sopravvissuti alle macerie della Dc. Dall’insieme di queste forze, Berlusconi inventa una coalizione di centrodestra che, pure nel ricambio dei suoi protagonisti, attraverserà la storia degli ultimi trent’anni e che oggi ha ormai la forza sufficiente per sopravvivergli. Di conseguenza, la ricerca affannosa dell’erede di Berlusconi è probabilmente superflua perché distrae da un fatto evidente: l’erede non è una persona fisica, ma è quella coalizione di partiti che oggi sono ancora in campo.

Ma l’analisi del ruolo demiurgico di Berlusconi non sarebbe completa senza ricordare l’impronta decisiva data al sistema politico italiano con l’affermazione del bipolarismo. Se, nei decenni del dopoguerra, era rimasta una democrazia incompiuta, a partire dal 1994 l’Italia entra nella stagione dell’alternanza conquistando finalmente la fisiologia delle democrazie mature. Ovviamente, gioca un ruolo cruciale anche il distacco degli eredi del Pci dall’imbarazzante eredità sovietica. A Berlusconi resta comunque il merito di aver costruito uno dei due pilastri dell’alternanza e di aver garantito questo schema fino ad oggi, interpretando pure un ruolo di responsabilità istituzionale nei frangenti (governi Monti, Letta e Draghi) in cui si sono resi necessari governi di larga coalizione e/o di unità nazionale.

Pronti dunque per la definitiva beatificazione? Niente affatto. La democrazia dell’alternanza e il nuovo bipolarismo italiano avrebbero richiesto una serie di modifiche costituzionali, indispensabili per garantire il funzionamento e il rendimento delle istituzioni in un contesto radicalmente mutato. Sul punto Berlusconi si è rivelato ambiguo se non apertamente evasivo, avendo scelto sempre di mettere il suo titanismo personale davanti alla costruzione di un sistema di regole condivise. Nel 1997, dopo il fallimento delle commissioni Bozzi e De Mita-Iotti, la bicamerale per le riforme guidata da Massimo D’Alema trova un punto di intesa con il centrodestra sul semipresidenzialismo e su una legge elettorale a doppio turno di coalizione.

A sancire l’accordo è il famigerato ‘patto della crostata’ stipulato a casa di Gianni Letta da Pds, Forza Italia, An e Ppi. Alla fine però, dopo diversi colpi di scena, Berlusconi ribalta la posizione rilanciando premierato e legge proporzionale, con l’effetto di rovesciare il tavolo delle trattative e chiudere definitivamente il processo aperto dalla commissione. «La Bicamerale è morta. Sia chiaro che non è né un suicidio né un ictus. È un omicidio e l’assassino si chiama Silvio Berlusconi», denuncia allora Fabio Mussi dei Ds. Un altro passaggio ambiguo si realizza più avanti, nel 2005, con l’adozione della legge Calderoli (poi chiamata ‘porcellum’ perché il suo stesso autore la definì «una porcata») che sostanzialmente riporta in auge il sistema elettorale proporzionale con l’aggiunta delle liste bloccate e del premio di maggioranza. In sostanza, un passo indietro avallato proprio da chi come Berlusconi aveva fondato il bipolarismo italiano sull’esercizio del sistema maggioritario previsto dal Mattarellum. In questo continuo gioco a perdere, arriva nel 2006 il referendum costituzionale sul progetto di revisione costituzionale formulato dall’allora Governo Berlusconi.

Il progetto prevede, tra le altre cose, il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e la modifica del bicameralismo paritario. Stavolta è la sinistra che si mobilita a difesa della Costituzione, agitando lo spauracchio della democrazia in pericolo: i No alla fine prevalgono e ancora una volta il conservatorismo dei partiti prevale sulle ragioni del cambiamento. Silvio Berlusconi avrebbe un’ultima occasione nel 2016, quando il progetto Renzi-Boschi cerca di raccogliere gli appelli alla riforma di Giorgio Napolitano e il frutto dei lavori della commissione Letta chiudendo così la lunga transizione italiana. Ancora una volta, Berlusconi fa saltare il tavolo dell’accordo con Renzi, irritato perché quest’ultimo ha scelto Sergio Mattarella per l’elezione al Quirinale.

Così, dopo trent’anni di berlusconismo, l’Italia è ancora nel guado di una transizione mai conclusa: il Cavaliere, che pure ha interpretato plasticamente e materialmente quella democrazia dell’alternanza tanto necessaria per il corretto funzionamento delle istituzioni repubblicane, non è mai stato capace di puntellare questo sistema con le necessarie riforme istituzionali. Forse perché, semplicemente, non ci ha mai creduto. Oggi Giorgia Meloni è nelle condizioni per ritentare. Di sicuro, questa volta non ci sarà più Berlusconi al tavolo dei negoziati.