Il nodo via Arenula
Berlusconi vuole il ministero della giustizia: Sisto o Casellati per contrastare Nordio e Bongiorno
Alla vigilia del suo rientro dopo nove anni, Silvio Berlusconi ha un tono rassicurante: “Ritorno al Senato dopo i torti subìti ma senza rivalse”. C’è da credergli, ma qualche nocciolino non può che essergli rimasto in gola. Sarebbe strano per esempio se il leader di Forza Italia, nel tornare in una vera maggioranza politica di governo, rinunciasse a rivendicare per il partito che fin dal 1994 ha avuto la sua cifra nel garantismo, l’indicazione del nuovo ministro Guardasigilli.
E infatti, dopo che per giorni erano circolati insistentemente i nomi di Carlo Nordio e Giulia Bongiorno, magistrato e avvocata, sostenuti dai rispettivi partiti di elezione, Fratelli d’Italia e Lega, ecco che l’ex presidente del consiglio si è fatto sentire. I “coniglietti” estratti dal cilindro d’improvviso, mentre ancora si discuteva tra vertici di partito sui Presidenti delle Camere e sul ministero dell’economia, sono quelli di altri due tecnici del diritto, l’avvocato penalista pugliese Francesco Paolo Sisto, attuale sottosegretario e Elisabetta Alberti Casellati, a sua volta avvocata e docente di diritto canonico, nonché seconda carica dello Stato uscente. E chissà se qualche sindacalista in toga non sia già pronto con il fucile spianato. Anche se i tempi sono cambiati, e la magistratura associata non è più così forte, né l’amministrazione della giustizia così amata dai cittadini come lo fu un tempo, sia pure a fasi alterne.
Quattro nomi, due donne e due uomini, sicuramente forti. Giuristi, perché si dà per scontato che quello della giustizia debba essere un ministero per “tecnici”. Lontani i tempi in cui proprio Berlusconi decise di sparigliare e per due legislature gli uffici di via Arenula furono occupati dall’ingegner Roberto Castelli. Che fu un ottimo ministro, che fece vedere i sorci verdi al sindacato dei magistrati. Le toghe lo sfottevano, pronunciando con sprezzo il termine “ingegnere”. Come se non sapessero che, essendo il ministero di giustizia pieno zeppo di loro colleghi, non esiste alcuna necessità che il guardasigilli sia a sua volta un tecnico del diritto. L’importante essendo, in quel settore come in tutti gli altri, la decisione politica. Poi ai numeretti dei codici possono pensare altri. Ne era ben conscio il primo ministro di giustizia del primo governo Berlusconi, l’avvocato Alfredo Biondi, che fu costretto a sacrificarsi a un ruolo che non aveva desiderato. Aveva scambiato le figurine e il posto con Cesare Previti, mandato alla Difesa per conflitto d’interessi, essendo uno dei difensori del premier.
L’avvocato genovese sapeva bene che mettere in campo avvocati e magistrati, non preludeva a una partita giocata secondo le regole, che lo scontro sarebbe stato un corpo a corpo di falli continui e i goal tirati in fuori gioco. Era infatti stato sufficiente un modesto decreto sui termini della custodia cautelare (successivamente la stessa riforma quasi identica fu approvata senza problemi) per far vacillare il governo dalle fondamenta in seguito alla sceneggiata tv del pool di Milano. Un successivo sciopero sulle pensioni lo aveva definitivamente affossato. La tenaglia magistratura-sindacati aveva vanificato quel che gli elettori avevano voluto.
Se l’avvocato era caduto sul diritto penale, l’ingegner Castelli fu ripetutamente trafitto come san Sebastiano per aver osato toccare l’intoccabile, cioè le carriere delle toghe. Ancora un anno fa, dopo l’esplosione del caso Palamara, sulla bocca del segretario generale della corrente di Area, Eugenio Albamonte, quel nome e quell’insulto, l’ingegnere, erano stati lanciati per attribuire all’ex ministro le colpe di tutto. Perché con la sua riforma che aveva introdotto la temporaneità degli incarichi direttivi e la rottura di placide carriere di anzianità, aveva creato il mostro della competizione. E da lì le sue degenerazioni. Perché così si s-ragiona in un certo mondo delle toghe. Basterebbe ricordare quel che è capitato a Matteo Renzi e alla sua famiglia dopo che da Presidente del consiglio aveva osato dire “brr che paura” sulle proteste dell’Anm in seguito al taglio delle ferie.
Il corpo a corpo non aveva risparmiato il ministro Angelino Alfano e il suo ”processo breve”, ritenuto responsabile addirittura di mandare in prescrizione il 50% dei processi penali di alcune grandi città. Anche in quella occasione la proposta di riforma era stata vissuta come un attacco all’indipendenza e all’autonomia della magistratura, il mantra buono per tutte le occasioni. Un comunicato sindacale addirittura quasi bagnava di lacrime il foglio su cui era scritto, immaginando come giudici e pm non “possano continuare a svolgere serenamente e con impegno il proprio lavoro, sapendo che la metà della propria attività sfumerà certamente entro il primo grado di giudizio”. Tempi andati, altri magistrati, altri ministri. Sarebbe giusto che Forza Italia avesse nel prossimo governo Meloni un “suo” ministro guardasigilli. Ma sapendo che quei fucili che avevano messo nel mirino quei ministri dei tre governi Berlusconi potrebbero non essere ancora stati seppelliti, proprio come quelli di alcuni partigiani dopo la resistenza.
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