Verso il voto USA
Bezos, una scelta di principio: Harris non funziona e perde anche il suo elettorato
Una “scelta principio” di più una scelta “giusta”, così Jeff Bezos alla fine prende carta e penna, o forse pennino e tablet, per siglare un editoriale chiarificatore dopo le polemiche che hanno attraversato come un uragano il mondo liberal americano.
Per i democratici è inconcepibile che il The Washington Post, il giornale liberal per eccellenza, la testata che ha scatenato il Watergate, possa per la prima volta dopo ben trentasei anni non esprimere un endorsement per il candidato dem. Eppure così sarà, e per mettere nero su bianco che non ci saranno ripensamenti o condizionamenti politici, a prendere la parola è Jeff Bezos in persona. La decisione è stata la sua, e questo lo si era capito subito, e sin da subito il coro a sinistra ha parlato di un Bezos preoccupato dalle possibili vendette di Trump una volta conquistata la Casa Bianca. Per altri invece è stata la conferma che il vento è cambiato, se pure Bezos, che possiede il Washington Post dal 2013 e che già nel 2016 e nel 2020 si è schierato contro Trump, ora sceglie di desistere, allora è chiaro che il vento è realmente cambiato.
Il giocattolo rotto
Il giocattolo della propaganda pro Kamala si è rotto, e chi ha da perdere non se la sente di rischiare. L’immagine del Madison Square Garden gremito è un’immagine forte che la campagna di Trump ha voluto lanciare all’America, un colpo deciso alla vigilia del voto, una foto entusiastica, uno scatto ottimistico, una risposta reale al mondo surreale dei rapper e delle popstar che danzano e cantano per Kamala Harris, nel cuore della grande mela che è anche una roccaforte democratica, la capitale liberal sulla costa orientale. Probabilmente Bezos le sue conclusioni le ha tratte da tempo, così come tanti che da dopo il momento iniziale, quello che ha consacrato Kamala Harris, si sono accorti che al di là del lancio mediatico, del bombardamento continuo, il messaggio e più ancora l’immagine di Kamala non sfondava.
Così la candidata che doveva sottrarre voti al campo avverso si è dimostrata capace di perdere anche il suo elettorato, troppo eterodiretta, poco empatica, incapace di affrontare interviste o dibattiti non concordati. Una candidata che ha detto “io ho un piano”, ma fino ad oggi non ha spiegato all’America quale sia questo piano. Ma soprattutto una candidata che doveva tenersi stretta le minoranze, soprattutto quella Black, ma i dati indicano una fuga, gruppi importanti come Italo americani e Cattolici e ha fatto di tutto per inimicarseli. Certo questo non basta per decretarne la sconfitta, e i numeri, i flussi di voto sono così incerti, che tutto può ancora succedere, anche se è chiaro che una parte di coloro che avrebbero dovuto scommettere su Kamala hanno già deciso che il rischio è troppo alto. Certo ha ragione Bezos quando afferma: “gli endorsement presidenziali non servono a far pendere l’ago della bilancia di un’elezione”, ed è vero che nessun elettore sceglie “in base all’endorsement del giornale A”, ma è anche vero che i simboli contano, in politica soprattutto.
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