Uno studente che invoca il genocidio del popolo ebraico sta violando o no i codici di condotta di una università? Va o no punito? La discussione, per nulla capziosa visti gli scontri che si stanno verificando nei campus universitari americani, è arrivata ieri alla Camera dei Rappresentanti a Washington, dove in un’affollata udienza sono stati sentiti i presidi di tre tra le più blasonate università, Harvard, il MIT di Boston e la Penn.

Ad incalzarli ci ha pensato un’astuta deputata repubblicana, che li ha strumentalmente interrogati con quella semplice domanda; a rispondere i tre presidi, che hanno tentato, nella loro balbettante risposta, di tenere insieme le tensioni tra filo-israeliani e filo-palestinesi che a partire dalla risposta di Gerusalemme all’attacco terroristico di Hamas sono scoppiate nei campus americani. Al centro, paradossalmente, la morte del dialogo, in una paradossale inversione dei ruoli, con i repubblicani diventati improvvisamente feroci esecutori di un “loro” politicamente corretto.

D’altronde, se c’è un elemento sempre più caratterizzante delle democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, è proprio l’incapacità di dialogo tra le parti politiche. Chi ci prova, anche tentando di tenere insieme le due esigenze – quella di Israele da un lato e del popolo palestinese dall’altro, ad avere una garanzia di un futuro vissuto in sicurezza, come cittadini e come Stato -, non buca, non fa breccia, perché il dialogo è ormai sempre più polarizzato. O sei bianco, o sei nero: per i grigi pare non esserci più posto. In fondo, è lo stesso destino che sta toccando alla Spagna, dove sinistra e destra dopo le vicende del secessionismo catalano non dialogano più su un nuovo regionalismo ed anzi si scontrano nelle piazze.

O nei Paesi Bassi, dove ha vinto un partito politico che nel suo programma propone senza mezzi termini uno stop a Corano e moschee, come se ciò fosse possibile, proprio nel Paese che 500 anni fa era terra di tolleranza. O in Francia, dove abbiamo più volte assistito a scontri tra banlieue e polizia, tra popolazione musulmana e presunti “nativi”, tra chi accoltella invocando Allah e chi urla ai “francocide”. O infine anche in Italia, dove alcune rappresentanze sindacali della Scala giusto ieri hanno contestato la presenza, nel palco reale, del Presidente del Senato, a causa dei suoi trascorsi politici.

È come se gli algoritmi dei social network si fossero impossessati di noi. Dei nostri pensieri, che così liberi ormai non sono più. Divorando il dubbio e l’ascolto, regalandoci solo inossidabili certezze, portandoci a dire mostruosità, come è tale invocare il genocidio del popolo ebraico. Prima metteremo mano a questo, più forte sarà la nostra risposta, più certezze avremo di salvare le nostre democrazie.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva