L’altro giorno, intervistato dalla Cnn, un ex capo dello Shin Bet ha accusato Netanyahu di aver imposto a Israele una guerra senza vie d’uscita, una guerra non come mezzo per perseguire l’interesse comune ma come fine per l’interesse proprio. Una semplificazione che, come tutte le semplificazioni, contiene qualche elemento di verità. Non è vero che Israele fatica a uscire dalla guerra per colpa di Netanyahu, ma è vero che Netanyahu confida nella guerra per non uscire di scena. Israele fatica a uscire dalla guerra perché ve l’hanno costretto, e continuano a costringervelo, forze che eccedono grandemente quelle intrufolate nei tunnel di Gaza e anche quelle, ben più strutturate, che incombono a Nord con l’arsenale pagato dai signori – gli iraniani – con cui Antonio Guterres chiacchiera affettuosamente nella quiete azzurra dell’Onu.

È di ieri la notizia di una causa intentata dai superstiti del 7 ottobre contro l’Unrwa, l’organizzazione delle Nazioni Unite che, con i soldi degli Stati membri, remunera gli insegnanti che impartiscono ai bambini palestinesi lezioni sull’uso delle armi e concede in comodato, ovviamente senza accorgersene, locali buoni per l’allocazione dei server di Hamas. Pare – questa è l’accusa – che un miliardo sonante di quei fondi sia stato distratto in diretto favore dei terroristi del 7 ottobre.

Un’accusa che, se risultasse fondata, aggiungerebbe in realtà assai poco a ciò che si è sempre saputo: e cioè che una buona quota del fiume di denaro della cooperazione internazionale non sfama solo donne e bambini bisognosi, ma anche i papà e i fratelloni che scannavano gli ebrei nel pogrom dell’anno scorso e continuano a godere di buon apporto calorico mentre seviziano gli ostaggi.

A chi domandasse che cosa c’entrino l’una con l’altra quelle due notizie apparentemente sconnesse – la requisitoria anti-Netanyahu di quell’ex responsabile dello Shin Bet, da un lato, e l’Unrwa che si fa lavanderia per il finanziamento di Hamas, dall’altro lato – sarebbe facile rispondere che, frullate, esse rendono meglio di qualunque sussiegosa analisi il succo della situazione in Israele. Un Paese che non è stato costretto alla guerra dal proprio primo ministro, ovviamente, perché la guerra gliel’hanno fatta i miliziani e i civili palestinesi che hanno sventrato Israele il 7 ottobre; ma anche un Paese che per uscire dalla guerra vincendola davvero deve liberarsi del proprio primo ministro.

Ma è infine, e forse soprattutto, il Paese che non è aiutato in nessun modo a uscire dalla guerra vincendola, perché c’è chi aiuta semmai i nemici di Israele, i quali non vogliono che Israele si liberi del proprio primo ministro e vogliono piuttosto che Israele perda la guerra. Un risultato diverso, in vista del quale le corporazioni della pace non badano a spese.