La logica del protezionismo
Biden copia Trump, nuovi dazi per proteggere i produttori a spese dei consumatori
Il presidente degli Stati Uniti ha aumentato le tariffe sui prodotti necessari per la transizione ecologica. Il paradosso: viene riconosciuta come un’urgenza planetaria non più rinviabile, ma così si rendono più cari gli elementi per centrare l’obiettivo
Nel 1845 Frederic Bastiat decise di affrontare, con ironia e arguzia, la questione del protezionismo e ideò una finta petizione al Parlamento francese da parte dei produttori di candele e di altri prodotti correlati. Il nemico straniero da combattere – che riduceva gli spazi di crescita economica e metteva a rischio i posti di lavoro nel settore – non era altro che il sole, intento ogni giorno a dare la propria luce a buon mercato, evitando così ai consumatori di comprare e utilizzare tutto l’occorrente per far luce e riducendo di conseguenza i profitti dei produttori di candele. Sono trascorsi quasi due secoli, ma la richiesta di protezione di produttori e lavoratori dai cattivi imprenditori stranieri che invadono le nazioni con prodotti a buon mercato appare sempre troppo attuale.
Globalizzazione lontana
Joe Biden ha da poco annunciato una stretta sulle tariffe per le importazioni di prodotti cinesi con dazi superiori al 100% per le auto elettriche, 25% per le batterie al litio e 50% su chip e pannelli solari, oltre a una serie di restrizioni amministrative su altre materie prime. Il presidente in carica, su questo punto, sembra seguire le orme del suo predecessore e attuale avversario politico, Donald Trump, che proprio nel corso del suo mandato ha inaugurato una politica protezionistica tesa a far grande di nuovo l’America. Il protezionismo, come riflesso economico del crescente sentimento nazionalista che vede nella grandezza e nella potenza delle nazioni l’unico modello di sviluppo economico e sociale, è diventato la nuova ragion d’essere di troppe forze politiche. Sembrano lontanissimi i tempi in cui la globalizzazione era considerata il miglior modo di fare crescere e portare fuori dalla povertà miliardi di persone nel mondo e, con essa, sembra essere andata in soffitta anche la politica di massima apertura delle frontiere per la libera circolazione di beni, persone e imprese.
Restrizioni raddoppiate
Come ha ricordato Kristalina Georgieva, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in un recente post sul blog istituzionale, il supporto pubblico verso l’apertura internazionale è al minimo livello in diversi paesi. Secondo le statistiche raccolte dal Fondo, dal 2020 al 2023 il numero di restrizioni internazionali al commercio è quasi raddoppiato, causando una sempre maggiore frammentazione geoeconomica che ha impatti rilevanti sulla crescita. Gli scenari peggiori vedono una perdita di prodotto interno lordo mondiale del 7%, pari in valori assoluti alla produzione congiunta di Giappone e Germania. Nel 2023 il commercio internazionale ha perso circa 1500 miliardi di dollari. Ma il protezionismo e il passaggio a catene del valore globale basate sul cosiddetto “friendshoring”, la localizzazione di imprese, stabilimenti e magazzini solo in paesi politicamente amici, non creano danni limitati soltanto alla crescita economica ma sono tra le cause principali dell’aumento del tasso di inflazione che ha fortemente ridotto i redditi disponibili nell’ultimo biennio e che – almeno a parole – tutti i governi combattono.
La spinta verso l’inflazione
I dazi e le tariffe sui prodotti importati mirano ad aumentare artificialmente il prezzo di quei beni di cui i cittadini consumatori potrebbero beneficiare a costi più contenuti. E così, per proteggere chi produce nel paese a costi più elevati, si finisce con l’imporre ai consumatori prezzi più elevati per prodotti simili, contribuendo a rafforzare la spinta verso l’alto dell’inflazione. Proteggere i produttori a spese dei consumatori diventa ancora più paradossale quando a essere vessati sono quei prodotti di cui i governi spingono il consumo con sussidi, incentivi e crediti d’imposta. Biden ha imposto tariffe sulle macchine elettriche, sui pannelli solari, sulle batterie al litio, tutti prodotti necessari per la transizione ecologica che ogni governo occidentale riconosce come un’urgenza planetaria non più rinviabile. I governi impongono interventi ai cittadini ma rendono più cari i prodotti per attuarli, imponendo i dazi. E quando si rendono conto che i costi sono troppo elevati si sforzano di ridurli con interventi economici spesso regressivi e poco efficaci.
I danni economici del protezionismo e della chiusura del commercio internazionale sono una delle poche questioni su cui gli economisti concordano quasi all’unanimità e vale la pena parafrasare Samuel Johnson per ricordare che il nazionalismo economico può essere considerato l’ultimo rifugio delle canaglie che non hanno davvero a cuore il benessere dei propri concittadini. In un bel libro di qualche anno fa sulla dimensione ottimale delle nazioni, Alberto Alesina ed Enrico Spolaore notavano come proprio la globalizzazione e la sempre maggiore integrazione economica rendevano irrilevante l’estensione geografica dei paesi. Grazie alle frontiere aperte e al commercio internazionale anche le nazioni più piccole possono beneficiare di mercati molto grandi senza che vi sia la necessità che provino a espandersi territorialmente come accadeva nei secoli precedenti, non a caso contraddistinti da una volontà di potenza nazionale che si esprimeva nell’occupazione dei territori delle nazioni confinanti al fine di acquisirne le risorse. E non sarà forse un caso che, a fronte di un ritorno delle frontiere e della crescente protezione degli interessi nazionali, ci ritroviamo con il riemergere di conflitti armati che speravamo ormai dimenticati. Proprio Frederic Bastiat ricordava che dove non passano le merci, passeranno gli eserciti. Speriamo di non dovergli dare nuovamente ragione.
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