“Con una serata di ospitalità italiana, avete più che compensato tutte le privazioni che ho sofferto lungo il percorso”. Ho incontrato Joe Biden una sola volta, nell’estate del 2008, quando da giovane ricercatore mi fu chiesto di redigere il verbale di una relazione dell’allora senatore a Venezia. Per facilitarmi il compito, Biden mi diede poi lo stampato del suo discorso con tanto di segni a penna che usa per ritmare le pause e contrastare la sua balbuzie. Neanche lui sapeva allora che da lì a poche settimane sarebbero seguiti 12 anni al vertice, otto da vicepresidente e quattro da presidente, dopo una vita trascorsa da testimone di alcuni dei passaggi più cruciali della politica estera americana dell’ultimo mezzo secolo. La decisione storica e sofferta di ritirarsi dalla corsa alla Casa Bianca segna un passaggio fondamentale e forse fatidico nella campagna per la sua successione. Ma per noi europei ha anche il sapore amaro della fine di un’era e di un salto nel buio.

Biden è con tutta probabilità l’ultimo presidente veramente transatlantico ed “europeo” degli Stati Uniti. Già Obama, per ragioni anagrafiche e di formazione, vedeva il suo internazionalismo come slegato dalla storia recente: il suo “perno verso l’Asia” e il fallimentare “reset” con la Russia, sintomi e simboli di una necessità storica di decidere i destini del mondo a prescindere dall’Europa. L’esperienza passata e forse futura di Trump e della destra americana indirizzano evidentemente l’approccio americano in direzione isolazionista che può solo significare l’urgenza per l’Europa di rimboccarsi le maniche.

Tutto questo non valeva per Biden. Di origini irlandesi, cattolico fervente, formatosi politicamente negli anni complessi della Guerra Fredda per poi consolidare la sua reputazione quale membro e presidente della commissione affari esteri del Senato durante la guerra nei Balcani, Biden apparteneva a quell’ultima generazione di statisti da George Bush padre a John McCain che consideravano la leadership americana come profondamente ancorata al diritto internazionale, al multilateralismo e all’alleanza valoriale e politica con l’Europa.

L’eredità più importante della presidenza di Biden, che molti da noi vedono con l’infondato sospetto dell’imperialismo, è la protezione strenua della sovranità ucraina dall’aggressione russa. Ha tenuto la barra dritta del sostegno militare e politico a Kyiv di dispetto delle divisioni profonde nel Congresso e alla crescente apatia della popolazione. Ha offerto un contraltare indispensabile alle ambiguità e distinguo che attanagliano noi europei. Vedere un ottuagenario passeggiare a Kyiv al primo anniversario dall’invasione, rarissima occasione per un presidente americano in un paese in guerra senza il controllo dello spazio aereo, era un segnale tanto per i russi quanto per noi.

La politica estera dell’amministrazione Biden non era cominciata sotto i migliori auspici, con la drammatica evacuazione dall’Afghanistan nel 2021, essa stessa peraltro indegna conclusione della fase di unilateralismo ed esportazione della democrazia che avevamo caratterizzato i venti anni dall’11 settembre. E non si conclude nel migliore dei modi con l’impotenza nel Medio Oriente e la palese incapacità di orientare le scelte belliche di Israele.

Ma per quanto riguarda l’Europa, la fine della presidenza di Biden segnerà il passo. Chiunque lo sostituisca alla Casa Bianca, l’Europa non troverà dall’altra parte dell’Atlantico una linea – telefonica o di credito – così aperta. Non troverà controparti che istintivamente e strutturalmente condividono l’impianto ideale ancorato nell’Occidente e nell’ordine da esso proposto. In questo, l’involuzione americana non è meramente un pendolo che oscilla verso l’America First. È l’ammissione che, dopo tutto, la Storia non è finita con la caduta del Muro di Berlino e la democrazia liberale non si è incardinata come modello universale dello sviluppo umano.

In questo, l’elemento più indicativo viene da J.D. Vance, il candidato repubblicano alla vicepresidenza. Nel suo discorso alla convention della scorsa settimana, Vance ha abiurato l’eccezionalismo americano tradizionalmente attribuito all’evoluzione storica e ideale degli Stati Uniti. Ciò che rende l’America speciale, ha sostenuto, è il fatto di essere una nazione. Paradossalmente, è questo al momento l’elemento principale di allineamento con gli orientamenti europei che soffiano in direzione di un nazionalismo sempre più esasperato.

Fabrizio Tassinari

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