Joe Biden affronta l’ultimo viaggio in Europa da presidente degli Stati Uniti, l’ultimo atto da leader di quello che un tempo – nella contrapposizione ideologica della Guerra fredda – veniva definito il “mondo libero”. Quella libertà dopo 34 anni dal crollo definitivo dell’Unione Sovietica il “mondo libero” l’ha data per scontata con eccessiva rapidità, e con quella superficialità che è tipica della società liquida nella quale viviamo. Inebriati com’eravamo dalla convinzione che la storia fosse finita, come celebrava non a caso nel 1992 Francis Fukuyama, poi tassello dopo tassello la storia è tornata a bussare alla porta dell’Occidente, ma questa volta seguendo un ritmo diverso, che ha reso tutto imprevedibile agli occhi spaesati dell’uomo postmoderno.

I problemi degli ultimi quattro anni

Il fato ha voluto – avrebbero sentenziato gli antichi greci – che per ritornare in tutta la sua dirompenza quello spirito del mondo descritto magistralmente da Hegel ha atteso proprio che nello “studio ovale” sedesse Joe Biden. Non che i suoi predecessori avessero vissuto tempi tranquilli, ma grami come questi 4 anni, gli Stati Uniti non li vivevano da molto tempo: certo, i conflitti mondiali, la Corea, il Vietnam, l’11 settembre, le guerre di Iraq e Afghanistan sono stati momenti più traumatici, e sono costati in termini di vite umane molto di più delle crisi di oggi agli americani, ma allora il gigante americano si avvertiva psicologicamente in ascesa, oggi si percepisce in declino.

La continuità con il passato

Joe Biden, varcando la porta della Casa Bianca il 20 gennaio del 2021, disse ai suoi collaboratori che la sua aspirazione era quella di ricostruire la presidenza – a suo giudizio violata da Trump – e così impostò la sua amministrazione nel solco di una continuità con il passato, non capendo o volutamente ignorando quanto il mondo fosse cambiato, e dovendo ancora mostrare tutti gli effetti di quel cambiamento. Chissà se viaggiando per l’ultima volta oltreoceano sull’Air Force One avrà ripensato al giorno in cui annunciò il ritiro dall’Afghanistan, dando vita a una ritirata disastrosa (obbligandone anche gli alleati europei) che per le modalità con la quale è stata realizzata ha finito per incrinare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, facendo intuire ai nemici di ieri e di oggi che il vuoto lasciato dall’America poteva e doveva essere riempito. Forse oggi non lo rifarebbe, o forse sì, ma non con quella rapidità, finendo alla fine per non ottenere nulla di concreto.

L’amarezza di Biden

Solo un mondo più caotico e tre fronti aperti, di cui due già in guerra. Biden si era immaginato come l’uomo che avrebbe ricostruito l’America, e invece lascerà la Casa Bianca con l’amarezza che lo accomuna solo al presidente Lyndon Johnson, ma contrariamente a LBJ, tradito anche dal suo partito, isolato e con la propria immagine distrutta dalle tante, troppe gaffe, frutto di una mente che non era già da tempo più quella di una volta. Nel sostenere Israele con tutta la sua forza – così come nell’appoggio a Kiev – ha voluto ricostruire la percezione americana dopo la fuga da Kabul, ma si è ritrovato impantanato in due conflitti regionali con rischio di escalation, in cui a dominare sono logiche antropologicamente incomprensibili per un impero come quello Americano e per un uomo come Biden. Con il rischio concreto che l’enigma cinese rompa gli indugi e si decida ad attraversare quel lembo di mare verso Taiwan. Così Biden, in volo sull’Air Force One, si ritrova a vivere lo stesso disagio psicologico del Tenente Drogo nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Avverte – perché nonostante l’età e le forze che vacillano, il “vecchio Joe” (come lo chiamano dalle parti di Washington) è un veterano, un politico navigato – che anche la presa sugli Alleati non è più quella di un tempo. Lo si è capito quando la Casa Bianca ha fatto intuire di non aver gradito per dinamiche interne alla politica tedesca che il cancelliere Scholz non abbia invitato Giorgia Meloni al vertice con gli Alleati. Che, con buona pace dei critici nostrani, si è dimostrata l’alleata più affidabile di Washington da quando è a Palazzo Chigi.

Cosa diranno le elezioni

Dell’eredità politica di Joe Biden le elezioni di novembre non diranno molto perché – eccetto la critica dei repubblicani e del suo predecessore e aspirante successore Trump – nessuno lo cita o lo menziona, e la sua vice Kamala Harris ha detto a chiare lettere che la sua eventuale amministrazione “non sarà una continuità di quella di Biden”. Joe si sognava il salvatore della presidenza, l’uomo a cui era affidato il compito di ricucire le ferite dell’America, per scoprire dopo quattro anni che la sua cura non è stata percepita e la sua eredità non è gradita agli stessi democratici, che per quattro anni lo hanno sostenuto come presidente e con cui ha vissuto la sua intera esperienza politica.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.