La notte dovrebbe aver scritto le parole definitive sulla corsa per la Casa Bianca. In ballo pochi voti in alcuni stati chiave degli Usa: tra questi, l’Arizona e il Nevada a sudovest (dove Biden sembra ormai vittorioso), la Georgia a sudest, la Pennsylvania nel nord industriale. Proprio quest’ultimo è lo stato in cui lo scrutinio dei voti termina più tardi rispetto a tutti gli altri, anche a causa della valanga di schede postali. È la grande novità di queste elezioni che, alla fine, dovrebbe avvantaggiare Biden, già vincitore in Michigan e Wisconsin.

Con i suoi voti postali – il conteggio dovrebbe completarsi oggi – la Pennsylvania è tra gli stati chiave di queste elezioni. Ecco perché ieri pomeriggio, con un altro tweet incendiario, poi segnalato e cancellato come “ingannevole” da Twitter, Trump ha minacciato: «Qualsiasi voto arrivato dopo l’election day non sarà contato». In Pennsylvania il presidente in carica risulta in testa con il 50,4% dei voti (contro il 48,3% di Biden), dopo il calcolo del 91% delle schede. Ma i voti per corrispondenza potrebbero capovolgere il risultato. «Non permetterò a nessuno di fermare lo scrutinio. Questi sono voti legali e saranno contati», promette Josh Shapiro, procuratore generale della Pennsylvania, rispondendo alle minacce del presidente.

Donald Trump si prepara a questo esito da settimane con un piano degno di un caudillo sudamericano: diffondere tra i suoi fan teorie cospirative basate sulla diffusione di brogli elettorali, contestare la validità dei voti, specie di quelli espressi tramite spedizione postale, e scatenare i suoi legali con una serie di ricorsi in tutti gli stati chiave. Ecco perché mercoledì scorso, dichiarandosi vincitore anzitempo, ha promesso di usare la Corte Suprema per invalidare i voti dei democratici. In un tweet di ieri mattina ha scritto, senza giri di parole e a caratteri cubitali: “Stop the count!”.

Un atteggiamento che alimenta nell’elettorato repubblicano il fuoco della protesta. Non a caso a Phoenix, capitale dell’Arizona, 150 manifestanti pro-Trump, alcuni dei quali armati, hanno rivolto minacce al cancelliere della contea dove si è svolto un conteggio dei voti che potrebbe determinare l’esito delle elezioni. Come racconta Simon Romero, corrispondente del New York Times, «i manifestanti sostengono che il funzionario addetto alle operazioni elettorali nella contea di Maricopa, avrebbe omesso di contare alcune schede elettorali che potrebbero costare parecchi voti a Donald Trump». Stesso clima a Detroit, città industriale del Michigan. Qui un altro gruppo di osservatori pro-Trump ha cercato di impedire il conteggio delle schede elettorali intimando ai funzionari di interrompere le operazioni di scrutinio dopo che la campagna di Trump ha intentato una causa per bloccare il conteggio in Michigan.

Alle proteste di Phoenix ha reagito il segretario di Stato dell’Arizona Katie Hobbs. «Non capisco l’obiettivo di questi manifestanti. Ovviamente conteremo tutti i voti. La legge ci obbliga a farlo», ha detto la Hobbs in un’intervista alla Nbc ieri mattina. «Gli addetti allo scrutinio nella contea – ha continuato – hanno lavorato 24 ore su 24 per contare questi voti e faranno il loro lavoro indipendentemente dal fatto che fuori ci siano manifestanti che li esortano a farlo». Infine, Hobbs ha respinto i rischi di “Sharpiegate”, l’idea diffusa online tra i sostenitori di Trump secondo la quale lo stato sta invalidando le schede compilate con dei pennarelli. «È una teoria del complotto. Non sta accadendo nulla di tutto questo», ha concluso.

Anche in Wisconsin, la responsabile della Commissione elettorale Meagan Wolfe ha risposto per le rime a Bill Stepien, responsabile della campagna Trump, che aveva segnalato “irregolarità in diverse contee del Wisconsin”. Per Wolfe, viceversa, il conteggio è andato “eccezionalmente liscio” e dichiarare il contrario è stato un “insulto” per gli scrutatori impegnati nelle operazioni. Abile nel seminare il caos, Trump ha chiesto ai suoi legali di trovare escamotage per bloccare il conteggio dei voti e per inondare di ricorsi i tribunali. Si tratterebbe di contenziosi lunghi e complessi: dovrebbero passare in una prima fase dalle corti dei singoli stati e soltanto alla fine potrebbero arrivare alla Corte Suprema. C’è il rischio di trasformare il periodo di transizione che si concluderà il 20 gennaio 2021 con l’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca in un vero e proprio calvario.

Ma l’iniziativa di Trump sembra priva di basi giuridiche solide. Joshua A. Douglas, professore presso il Rosenberg College of Law dell’Università del Kentucky avverte: «In una controversia elettorale non si può portare un caso direttamente alla Corte Suprema. E non c’è alcuna azione legale che permetta al presidente di bloccare il conteggio dei voti e dichiararsi vincitore». Non a caso dunque, proprio ieri, un giudice della Georgia ha respinto l’azione legale sui voti per corrispondenza avviata dalla campagna di Donald Trump. Al di là dell’esito dei ricorsi, il fatto che la gara per la Casa Bianca possa finire al fotofinish, alimenta il timore che il “trumpismo” sia ormai una infezione permanente della democrazia americana. Ne è convinta Susan B. Glasser del New Yorker: «Anche se non dovesse essere rieletto, destabilizzando in modo incessante le istituzioni di base del nostro governo e del nostro sistema elettorale, Trump ha ora prodotto il risultato desiderato: una superpotenza lacerata dall’interno, che non si fida più della propria democrazia».

Le conseguenze potrebbero essere enormi. Come ha twittato di recente Dan Slater, direttore del Weiser Center for Emerging Democracies presso l’Università del Michigan, «il trumpismo potrebbe diventare la versione americana del peronismo. Altamente mobilitante, altamente polarizzante, non sempre al potere, ma mai scomparso». Insomma, come ha titolato in questi giorni il Washington Post, «il trumpismo è qua per restare». Per i dem sarebbe un incubo. Per Mosca, Pechino e Teheran sarebbe invece un film avvincente.

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