Mensilmente sui tavoli delle cancellerie di tutto il mondo arriva il voto di ciascun leader. Si chiama “Morning Consult approval ratings”, una valutazione aggiornata ogni mese sul gradimento dei leader, di ogni capo di governo o di Stato. E gli strateghi della campagna elettorale del Presidente Biden si sono resi conto che il bistrattato Joe, biasimato per i suoi vuoti di memoria e per il suo incedere tentennante quando non cadente, non è poi così male. Ce ne informa Nicholas Kristof sul New York Times, il quale osserva.

Joe Biden è trattato malissimo dall’opinione pubblica, per non dire dai repubblicani, eppure va molto meglio della maggior parte dei leader occidentali: meglio di chi governa in Canada, Regno Unito, Germania, Irlanda, Svezia, Spagna, Belgio, Austria, Norvegia, Francia e Giappone. Chi è curioso di sapere come se la cava Giorgia Meloni nella classifica la troviamo all’ottavo posto, due in più di Joe Biden. I criteri della valutazione non sembrano ovvi né tutti prevedibili.

Al primo posto nella popolarità certificata c’è il Premier indiano Narendra Modi, seguito dal messicano Andrès Manuel Lòpez Obrador, dallo svizzero Alain Berset, dal polacco Donald Tusk, dal brasiliano Lula da Silva e dall’australiano Anthony Albanese. Quindi al settimo posto l’Italia con la Meloni per l’Italia (approvata dal 44% e disapprovata dal 50, con un 7% di incerti), poi Pedro Sanchez per la Spagna e finalmente il Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden con il 37% del consenso, il 55 del dissenso e l’8% di incerti. Per soddisfare le curiosità citeremo solo il fatto che il Primo Ministro Britannico Rishi Sunak gode dell’appoggio del 26% degli inglesi, il francese Macron il 24 mentre il cancelliere tedesco Olaf Sholz si ferma al 20.

Oggi negli Stati Uniti e nel mondo, magari bestemmiando, quasi tutti danno per scontata una vittoria di Trump alle elezioni di 4 novembre. Su che cosa è fondata su questa previsione? Sui sondaggi, certamente. Ma qual è l’elemento che nei sondaggi fa vincere Trump? Nessun dubbio: l’emigrazione fuori controllo che arriva dal Messico ma il cui flusso nasce in Nicaragua e Guatemala dove raccoglie i flussi che vengono dall’intero continente latino. E il mondo è pieno di governi che vengono considerati di destra o di estrema destra soltanto misurando la loro volontà e capacità di contenere e governare i flussi migratori.

Il ragionamento si chiuderebbe più o meno così: se per vincere bastasse mostrare una ferma volontà di contenere o impedire l’ingresso di immigrati illegali, basterebbe che Biden desse una scossa alla sua linea politica permissiva e dichiarasse guerra all’immigrazione riprendendo la costruzione delle barriere e dei muri lungo la frontiera messicana. Per capire meglio il passato dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi, aiuterebbe molto il nuovo libro di Fareed Zakaria, 64 anni, nato a Bombay e nazionalizzato americano e considerato secondo Wikipedia “una delle 21 persone più importanti del XXI Secolo” e il più influente consigliere di politica estera. Il suo nuovo libro è “Age of Revolutions” (suoi libri più famosi sono “Il mondo post-Americano” e “In difesa dell’educazione liberale”) in cui spiega come si sia arrivati ad oggi, partendo dalle grade crisi finanziaria del 2008 e dai crescenti rifiuti ad accettare la globalizzazione in moti Paesi occidentali che si misero sulla stessa linea del “Tea Party” americano che ha messo insieme l’etnonazionalismo di una destra – quella di Trump – a suo modo rivoluzionaria e non conservatrice.

I Tea Party sono stati un ritorno alle origini, a quel che accadde il 16 dicembre 1773 quando i coloni – camuffati da nativi americani – salirono a bordo della nave inglese Darmouth e buttarono in mare le balle di tè destinate a Londra, ma gravate da una nuova tassa, il “Tea Act” del governo coloniale britannico. Con perfetto accento bostoniano i falsi pellerossa gridarono “Il nostro tè, meglio ai pesci che al Re”. Fu il primo atto di ribellione fiscale e il primo atto della Rivoluzione Americana.

Il nuovo Tea Party fu fondato nel 2009 su posizioni conservatrici ma “libertarian”. Sotto il repubblicano John Bush e il democratico Barack Obama i “libertarians” scatenarono rivolte sia con obiettivi sociali, come il servizio sanitario. Il partito repubblicano si riempì di questi movimenti di protesta che non avevano a che fare con la tradizione e attraverso Trump le ha metabolizzate alla meno peggio. Kristof scrive: tutti quelli che non ce la fanno a sopportare l’idea di un’altra presidenza Trump farebbero bene a guardare ciò che accade in paesi che noi americani consideriamo socialmente liberali e scoprirebbero partiti con lontane origini naziste o fasciste (e cita anche il partito di Giorgia Meloni) che fanno parte del panorama democratico. Cita il caso dell’olandese Geert Wilders che voleva mettere al bando il Corano, che chiamava i marocchini feccia e che ha vinto le elezioni a novembre.

Che cos’è che oggi qualifica “quanto è di destra” un partito, se non la sua politica anti-migratoria? Lo scrive anche Sylvie Kauffmann su Le Monde: i partiti di sinistra e liberali sono perfettamente titolati a contrastare la destra con leggi anti-immigrazione migliori, più morali e funzionanti e togliere così alla destra il monopolio di una politica che cresce col populismo. Vuoi fermare e sfidare il populismo di Trump? Fatti paladino, caro Biden, di una politica perfettamente democratica ma perfettamente funzionante e non farti più ricattare. Kristof ne fa un caso personale: io non esisterei se mio padre nel 1952 non fosse stato accolto come immigrato in America. “Ma l’idea di veder tornare alla Casa Bianca Donald Trump è peggiore ancora”.

È in questi giorni che i think-tank democratici americani stanno considerando una alleanza fra il partito e la classe lavoratrice dei colletti blu che ha già dato a Biden il suo massimo contributo elettorale perché Biden è sempre stato, e resta, il politico più vicino ai sindacati. Del resto, il suo incontro con Barak Obama è avvenuto nelle centrali sindacali di Chicago e non nei corridoi vellutati di Capitol Hills. La battaglia finale tra Biden e Trump, secondo gli intellettuali che sono le nuove “teste d’uovo” all’epoca del circolo dei Kennedy nei primi Sessanta, deve apparire agli elettori come quella mortale fra un cinico miliardario che si presenta come un populista anti-corruzione (ma accusato di continua corruzione) e un uomo dall’aspetto fragile e non da energumeno che è sempre stato dalla parte dei sindacati e degli immigranti, finché hanno retto gli argini che ora sono crollati sotto la spinta che viene dal Sud del mondo.

E a prendere la guida dell’azione per fermare l’immigrazione – questo il messaggio costruito e diffuso pima di tutto negli Stati “azzurri”, cioè già democratici – deve essere solo Biden, l’uomo su cui ancora punta il socialista Sanders che controlla la sinistra del partito e che è stato al fianco del Presidente quando è stato accusato dal mondo arabo-americano di aver protetto e armato Israele troppo a lungo. Il partito, insomma, ancora c’è e non ha altre alternative oltre Biden. Ma deve essere liberato dalla maledizione che vorrebbe un Trump inarrestabile e vincente. Occorre molta abilità e aggressività per rovesciare le sorti del pronostico. Ma sarà la partita sul governo dell’immigrazione a fare la differenza e a incoronare il vincitore. Per l’Europa si può dire sia questione di vita o di morte, sapendo che Trump ha il proposito (non segreto) di lasciarla alla mercé dei capricci e delle ambizioni di Putin.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.