Dopo giorni di assedio e bombardamenti, il portavoce dell’esercito israeliano ha seminato dei dubbi. L’invasione via terra della Striscia di Gaza? Possibile, ma potrebbe non essere la prossima fase della guerra contro Hamas. La dichiarazione potrebbe servire a mescolare le carte evitando di dare punti fermi ai nemici. Ma da essa è possibile dedurre anche come il confronto tra Israele e l’organizzazione terroristica che controlla Gaza stia diventando ogni giorno più complesso.

Lo si è capito, del resto, anche nelle ultime settimane, quando all’attesa di una imminente offensiva via terra si è aggiunta quella per i risultati dei contatti tra leader mondiali e locali per non ampliare il conflitto, capire il destino dei profughi e salvaguardare la vita degli ostaggi. Tre questioni che hanno richiesto e continuano a richiedere tempo, incontri e viaggi diplomatici. Un intreccio di interessi che coinvolge attori regionali quanto globali e in cui tutti cercano di indicare linee rosse per evitare che l’incendio abbia conseguenze incontrollabili.

La conferma è arrivata quando la Casa Bianca ha annunciato ufficialmente l’arrivo del presidente Joe Biden in Israele, che sbarca nello Stato ebraico dopo essere stato preceduto dal segretario di Stato Anthony Blinken e dal capo del Pentagono Lloyd Austin. Biden, secondo quanto si è riuscito a comprendere dalle notizie date da Washington, ha un programma intenso, fatto di incontri decisivi. In Israele sono in agenda meeting con il presidente Isaac Herzog e il primo ministro Benjamin Netanyahu, ai quali il capo della Casa Bianca ribadirà il pieno sostegno nella guerra contro Hamas.

Ma per Biden la giornata proseguirà in Giordania, dove nella capitale Amman è atteso da un altro vertice particolarmente impegnativo con il re Abdallah, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Tutto in meno di 24 ore. Un tour de force diplomatico che, come ha fatto capire il portavoce delle Israel defense forces Jonathan Conricus, probabilmente ha rallentato la decisione del gabinetto di sicurezza di muovere carri armati e truppe nella Striscia dando il via all’offensiva via terra.

Biden appare determinato a proseguire lungo la linea segnata nei giorni successivi all’attacco di Hamas al cuore dello Stato ebraico. Il semaforo verde di Washington all’operazione militare non è mai stato messo in discussione ed è stato confermato anche dallo stesso leader Usa. L’arrivo di due portaerei, la notizia di altre due unità navali in rotta verso il Levante e il rafforzamento della presenza militare Usa in tutto il Medio Oriente appaiono poi come immagini cristalline dell’impegno statunitense nella regione sia per tutelare Israele sia come deterrente nei confronti dell’Iran e di Hezbollah.

Tuttavia, per l’amministrazione americana è il momento di capire anche se un’eventuale vittoria tattica di Israele a Gaza possa rivelarsi un pericoloso punto interrogativo strategico sia per gli interessi dello Stato ebraico che per quelli di Washington in Medio Oriente. Non è un caso che Biden, poco prima di confermare il viaggio in Israele, abbia voluto definire la possibile occupazione di Gaza come un “errore”, mettendo quindi in chiaro che la Casa Bianca ritiene che esistano delle linee rosse per salvaguardare la propria scacchiera regionale.

L’incontro di Amman, la conferma di un coordinamento con i due governi limitrofi alla crisi (quello giordano e quello egiziano) e il dialogo con l’Anp sottintendono così la volontà di Washington di non impedire la resa dei conti di Israele contro Hamas, ma allo stesso tempo di tutelare la stabilità regionale evitando inoltre di mettere a rischio la vita dei civili. Israele intanto continua con i raid contro i vertici di Hamas. In uno è stato ucciso Ayman Nofal, tra i comandanti delle Brigate Ezzedin al-Qassam; in un altro, invece, sarebbero morti tre familiari del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, compreso uno dei suoi figli. Allo stesso tempo, però, i dati del ministero della Salute palestinese danno un quadro fosco della situazione che si vive nella Striscia, con le vittime che sarebbero già più di tremila e i feriti circa 12.500. Numeri che, uniti al collasso degli ospedali e all’assenza di vie di fuga dalla Striscia rendono sempre più drammatica la condizione dei civili. Come sempre in questi giorni, a preoccupare è anche l’apertura di altri fronti.

Da un lato, non vanno dimenticate le tensioni in Cisgiordania, che resta una delle aree bollenti del confronto tra israeliani e palestinesi. Dall’altro lato, gli occhi del mondo sono puntati costantemente sul Libano, nella cui parte meridionale si susseguono lanci di missili verso Israele e risposte delle Idf con artiglieria e mezzi aerei. Hezbollah, il partito-milizia sciita legato a Teheran, ha confermato ieri la morte di quattro suoi membri mentre compivano il “dovere del jihad” vicino al territorio israeliano. E la situazione resta al momento critica.

Usa e Stati europei premono affinché il “Partito di Dio” non inneschi un’escalation che coinvolga anche il Libano. Da Beirut a parlare è stato il ministro degli Esteri Abdallah Bou Habib che, in conferenza stampa con l’omologo turco Hakan Fidan, ha ribadito che il Libano è contro la guerra e desidera la calma “per tutta la regione”. Tutto dipenderà dalla volontà del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e dal suo dominus, la Repubblica islamica dell’Iran, a sua volta interessata anche a quello che accade a Pechino, dove il vertice tra Vladimir Putin e Xi Jinping potrebbe avere ripercussioni sulla grande crisi mediorientale. In queste ultime settimane, Mosca e Pechino hanno mostrato una linea comune volta a screditare la leadership Usa nella regione e a perorare la causa palestinese compattando così intorno a loro le potenze arabe. L’incontro per la via della Seta potrebbe quindi avere effetti rilevanti anche in una regione diventata sempre più centrale tanto per la Cina quanto per la Russia.