È possibile valutare le politiche di welfare a partire da un approccio di genere? E come si fa a scrivere un bilancio delle amministrazioni pubbliche capace di esaltare il ruolo economico e sociale delle donne? Ne abbiamo parlato con Giovanna Badalassi, ricercatrice indipendente specializzata nei bilanci di genere e nelle politiche pubbliche in materia di Welfare e di Lavoro. Da diversi anni collabora con enti pubblici e Istituti di ricerca ed è autrice di una quarantina di bilanci di genere tra Regioni, Province e Comuni. Nel 2016, con la collega Federica Gentile ha fondato il blog www.ladynomics.it che si occupa proprio di economia di genere.
Cos’è il bilancio di genere e a cosa serve?
Il Bilancio di Genere è uno strumento di analisi e valutazione delle politiche pubbliche rispetto al diverso impatto che queste hanno sulle donne e sugli uomini. Si parte dal presupposto che donne e uomini sono diversi come esperienza di vita, condizione economica e sociale, e quindi non esistono politiche “neutre” rispetto al loro impatto.
Esiste un obbligo di redigerlo in capo alle amministrazioni pubbliche?
In teoria sì, il Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Decreto Brunetta) inserisce il Bilancio di Genere tra gli strumenti per migliorare le performance delle amministrazioni pubbliche che lo dovrebbero inviare al Ministero entro il 30 giugno di ogni anno. Il Decreto, ad oggi, è rimasto però inapplicato su questo punto in gran parte, dal momento che non prevede alcuna sanzione per le amministrazioni per il mancato rispetto di tale previsione. A livello nazionale, invece, il Mef pubblica oramai da 5 anni il Bilancio di genere dello Stato.
Lei ha lavorato, nel 2002, a uno dei primi bilanci di genere: che esperienza è stata e cosa è cambiato da allora?
Si, è vero, il Bilancio di Genere del Comune di Sestri Levante, promosso dalla Provincia di Genova, è stato uno dei primi in Italia. All’inizio era tutto sperimentale e innovativo, e devo dire che è stato davvero interessante e stimolante seguire l’evoluzione di questi studi in Italia. Grazie ad un progetto europeo che all’inizio ne ha finanziato la diffusione, dal 2002 ad oggi si sono fatti circa 140 Bilanci di Genere tra Regioni, Province e Comuni, oltre a una cinquantina nelle Università. Come abbiamo raccontato su Ladynomics si è sviluppato inoltre negli anni un percorso normativo che ha inserito il Bilancio di Genere nel nostro ordinamento a pieno titolo, fino ad arrivare al livello nazionale.
Con la pandemia, il gender gap si è approfondito: la stessa politica ha ormai acquisito la consapevolezza dei “diversi” divari esistenti tra uomini e donne ma anche degli strumenti potenzialmente in grado di colmarli. Eppure la sensazione è che si sia sempre in ritardo, a inseguire qualche emergenza. In questo contesto, quale tipo di cambiamento avrebbe il potere di promuovere il gender budgeting, secondo lei?
Se utilizzato, il Bilancio di genere ha delle potenzialità davvero trasformative per la nostra economia e la nostra società. Ragionare dell’impatto sulle donne e sugli uomini di tutte le politiche, anche quelle apparentemente neutre, come ad esempio le attività produttive, la mobilità o l’ambiente, significa promuovere un cambiamento di sistema e affrontare le disuguaglianze, le differenze e le discriminazioni in modo strutturale. Per questo motivo, ci sono forti resistenze al cambiamento che ostacolano un utilizzo politico del Bilancio di Genere. Devo però osservare che il peggioramento del gender gap in Italia a causa della pandemia ha portato a una nuova consapevolezza da parte delle donne e ad un forte e rinnovato interesse per questo strumento.
Quali sono i punti di forza e di debolezza del bilancio di genere in Italia: a che punto siamo, oggi?
In Italia abbiamo raggiunto un livello tecnico nello sviluppo del Bilancio di genere molto alto, che ci viene riconosciuto anche a livello europeo e internazionale. Il maggiore punto di debolezza riguarda invece la scarsa attenzione politica nell’utilizzo di questo strumento, che si porta dietro anche una mancanza di risorse adeguate per implementarlo.
Ci sono buone pratiche all’estero che sarebbe bene seguire?
All’estero il Bilancio di Genere ha iniziato a essere sperimentato fin dagli anni Ottanta. Ci sono numerose esperienze di ogni tipo, il Fondo Monetario Internazionale nel 2015 ha censito 82 paesi nel mondo che lo hanno adottato, tra questi circa la metà sono dell’Oecd. L’Unione europea, attraverso l’Eige, l’Istituto per la parità di genere, è molto attiva su questo tema, mentre un punto di riferimento storico è l’esperienza inglese del Women’s Budget Group.
Cosa aiuterebbe il bilancio di genere a trovare piena applicazione?
Un interesse politico a promuovere effettive politiche di parità di genere. Su queste, purtroppo, siamo ancora molto indietro in Italia, e non solo per una classe dirigente “disattenta”. È importante ricordare che le donne in Italia hanno una partecipazione politica molto bassa: alle ultime elezioni europee hanno votato solo la metà delle donne aventi diritto, mentre 11,7 milioni di donne over 14 non parlano mai di politica, contro 6,9 milioni di uomini (Istat, 2019). C’è quindi ancora molto da lavorare per migliorare la nostra democrazia attraverso una maggiore cittadinanza attiva delle donne, nell’interesse loro e di tutto il Paese.