Ceci n’est pas une saucisse. Viene da scomodare Magritte alla notizia della conversione in legge, venerdì scorso, del decreto francese sul meat sounding, che vieta l’uso di termini come bistecca o salsiccia per prodotti non derivati da animali. In realtà, il provvedimento, emanato a febbraio, ha ricevuto ad aprile il parere contrario del Consiglio di Stato a Parigi, in quanto vi percepiva forti dubbi di legalità. La decisione poggiava sulla sentenza del luglio 2023 della Corte di giustizia dell’Unione europea, che negava la possibilità per uno Stato membro di adottare misure nazionali per regolamentare questo tipo di designazione. Ciononostante, il governo Attal ha deciso di procedere. Così anche la Francia, dopo l’Italia, va a impantanarsi nello scontro proteine animali vs vegetali.

L’identità veggy

Sbaglieremmo, però, se ne facessimo soltanto una querelle lessicale. Quando si pensa a chi si oppone a un innocente hamburger vegetale, salta subito in testa l’immagine del rozzo agricoltore che ce l’ha a morte con chi non gli impedisce di vendere le sue prelibate salsicce. D’altra parte, la collera degli allevatori è uguale e contraria all’ostinazione di apporre la denominazione “carne” a un cibo che della carne non ha la benché minima cellula. Anzi, la sua composizione di legumi e ortaggi va a soddisfare la domanda di chi la carne non vuole nemmeno annusarla. Questa ansia di vedersi avvalorata l’identità veggy, pur associandola a un prodotto non veggy, impedisce ai sostenitori del planted-food di rendersi conto che, così facendo, si travisa non solo il consumatore onnivoro, ma anche quello vegetariano. Perché un würstel di soia, che non è carne di fatto, pretende di esserlo nel nome?

La confusione dei nomi che alimenta il mercato vegetale

Ma il confronto proteine animali-vegetali è anche economico. La curva demografica mondiale (8 miliardi di persone oggi, quasi 10 nel 2050) va di pari passo con l’incremento del fabbisogno energetico. Entro il 2050 infatti, è prevista una crescita del 21% della domanda globale di proteine animali. La zootecnia europea, con i suoi 200 miliardi di fatturato, per oltre 3 milioni di imprese e con 26 milioni di addetti, ha tutte le parte in regola per giocare un ruolo di punta nel fornire prodotti animali di alta qualità ed ecosostenibili a questa domanda in espansione. Da parte sua, anche il mercato di polpette, hamburger e salsicce vegetali gode di buona salute. Vale infatti il 34% del mercato europeo e il 10% di quello italiano di quello complessivo delle proteine. Con questi numeri può erodere il settore dei prodotti animali. Può farlo con legittimi strumenti di concorrenza, quanto anche traendo vantaggio dalla confusione dei nomi.

Allevatori e imprese planted-food nel limbo

Il fatto è che siamo di fronte a una rivoluzione dei consumi, della nutrizione e della cultura alimentare. Al mercato sono richieste innovazioni di prodotti e tecnologiche che permettano di sostenere una sempre più elevata domanda di alimenti. Meglio se contenendo l’impatto ambientale e contribuendo alla diffusione del benessere. Questi sforzi però devono essere accompagnati da norme e regolamenti a garanzia del consumatore e delle forze produttive. I provvedimenti varati da Francia e Italia hanno generato soltanto polemiche. Ha ragione il Consiglio di Stato francese quindi: a occuparsene dovrebbe essere l’Europa. Passata la sbornia elettorale, sarà la volta buona per colmare un vuoto normativo che lascia consumatori, allevatori e imprese planted-food nel limbo?

Antonio Picasso

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