Ricordate Platì? Un piccolo centro dell’Aspromonte di circa 4000 abitanti contro cui nel novembre del 2003 si scatenò l’operazione “Marine” che vide oltre mille carabinieri muoversi alle prime luci dell’alba all’assalto del Paese. Ne parlarono le televisioni a rete unificate, i giornali nazionali ed il caso finì anche sul New York Time e la Bbc.
In effetti fu una autentica operazione di guerra con rastrellamenti ed arresti di massa. In carcere finì il sindaco che era anche il medico del paese, il segretario comunale, il tecnico e finanche lo ”scemo” del villaggio. Il poveretto non voleva salire sul cellulare dei carabinieri sino a quando i suoi compaesani, mossi da compassione, non riuscirono a convincerlo che l’avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio.

Su 4000 cittadini ben 204 furono coinvolti. Almeno uno a famiglia. Ci pensarono i giudici a ristabilire la verità: quasi tutti assolti. Solo 8 su 204 furono condannati. In uno Stato serio, “Marine” avrebbe fatto scuola. I giovani “uditori giudiziari” avrebbero studiato il “caso” per capire come non dovrebbe comportarsi un magistrato, perché una cosa è chiara: l’operazione finì col rafforzare la ‘ndrangheta spingendo gli innocenti sulla stesa sponda dei mafiosi.
Ed invece pur a distanza di tanti anni, quella sciagurata operazione continua a produrre danni contro gli inermi cittadini del Paese. A Platì, dopo aver sospeso la democrazia per decenni sciogliendo a ripetizione i consigli comunali, adesso si proibiscono i funerali in Chiesa. Platì è di fatto paese “scristianizzato” .

Facciamo qualche esempio: il 14 febbraio scorso muore a soli 53 anni Domenico Perre, padre di 4 figli. La questura vieta il funerale a causa dei “trascorsi giudiziari” del defunto e per i “legami di parentela” dello stesso.
In questo caso non vogliamo neanche invocare il principio costituzionale secondo cui “la responsabilità penale è personale” ma piuttosto capire quali sono i trascorsi giudiziari di cui parla la questura e quali sono i rapporti di parentela alla base del divieto. Ma prima occorre sgombrare il campo da un equivoco creato ad arte della questura nel momento in cui vieta funerali a raffica scrivendo con burocratica puntualità che «il divieto è necessario perché il funerale potrebbe essere l’occasione propizia per la commissione di azioni di rappresaglia». Ebbene, a Platì storicamente non è in corso alcuna faida e l’ultimo omicidio di mafia risale a qualche decennio fa. Di quale “operazione di rappresaglia” si parla? E contro chi?

Ritorniamo ai fatti. Perre non ha mai riportato una condanna penale ma, si badi bene, è stato arrestato nell’operazione “Marine”. Assolto ed indennizzato per “ingiusta detenzione” rimane un “pregiudicato” perché, a queste latitudini, neanche le sentenze dei giudici possono cancellare il marchio a fuoco impresso da qualche Pubblico Ministero. La stessa cosa per il padre del defunto e per il suocero. Tutte e due arrestati nell’ambito dell’operazione “Marine” ed assolti già nel primo grado di giudizio. Tutte e due indennizzati per ingiusta detenzione. In conclusione né Perre Domenico, né il padre, né il suocero hanno avuto condanne penali passate in giudicato ma tutte e tre sono stati coinvolti nell’operazione “Marine” che è stata un’ecatombe di innocenti e che continua a produrre i suoi effetti scellerati e perversi sulla vita dei cittadini di Platì.

In qualche occasione si va ancora oltre, è il caso del divieto di svolgere i funerali di Barbaro Giuseppe di cento anni e sei mesi. Poco tempo prima aveva festeggiato il secolo di vita in Chiesa. La festa sì, ma… non il funerale. Sarebbe bene che la ministra dell’Interno chiarisse in Parlamento con quale diritto si vieta di portare in Chiesa, per la funzione religiosa, la salma di un vecchio di religione cattolica, incensurato all’età di cento anni. Se il fatto si fosse svolto nella Cina “comunista” o nell’Afghanistan dei talebani sicuramente le autorità cattoliche avrebbero protestato. Ma… la Calabria è molto più lontana. Il parroco del Paese, un lombardo che ha vissuto quasi mezzo secolo in missione, in passato ha espresso la sua ferma indignazione puntando il dito contro gli arbitrari divieti del Ministero dell’Interno. È stato tutto inutile.

Concludiamo: a Platì la ‘ndrangheta c’è ed è una cosa terribilmente seria. Sradicarla (e non solo attraverso la repressione) sarebbe un dovere dello Stato; far finta di combatterla arrestando gli innocenti, sciogliendo i consigli comunali, vietando i funerali, umiliando i parroci, intimorendo i sindaci ed ignorando le stesse sentenze della magistratura, significa percorrere la rovinosa strada imboccata nel novembre del 2003 con l’operazione “Marine”. Una operazione che ha ottenuto come unico risultato uno scatto in avanti della ‘ndrangheta a cui corrisponde il silenzio rassegnato dei cittadini onesti, anche se non possono dirsi più tali essendo stato impresso sulle loro carni il marchio indelebile di ex galeotti.

Percorrendo tale via la credibilità dello Stato è scesa sotto zero. Mentre s’è creato l’humus che consente alla ndrangheta di crescere e svilupparsi. Toccherebbe alla politica, se ancora ve ne fosse uno straccio in Calabria, bloccare la spirale impazzita ma, anche in vista delle prossime elezioni regionali, i “politici” parlano d’altro. Cioè del nulla. E comunque il caso Oliverio (ma anche Tallini) sconsiglia fortemente (quantomeno ai pavidi) di opporsi a coloro che detengono il “Potere”. Quello vero!