Celebriamo la nostra festa.
Facciamolo con tutte le emozioni e i sentimenti per la Repubblica. Ringraziando chi ci ha liberato e chi ha contribuito alla liberazione. Quando guardiamo le immagini della parata ricordiamo chi ha perso la vita per noi: per darci un’aria profumata di libertà e democrazia.
Sfruttiamo questo giorno per un esame di coscienza complessivo chiedendoci cosa stiamo facendo per migliore il Paese. Nel nostro piccolo. Nel nostro cuore. Giustizia, lavoro, burocrazia, giovani, ecc. Solo alcuni, quest’ultimi, dei binari sui quali il treno del Paese si incammina ma inciampa, ciclicamente, in qualcosa che non va.
Vogliamo, una volta per tutte, dare alla magistratura una giustizia sana e credibile? Terza, imparziale e serena nel decidere sulla vita degli altri. Vogliamo, una volta per tutte, rendere sostenibile il lavoro per le imprese e le imprese per il lavoro? Perché il salario minimo andrebbe reso sostenibile; diversamente rischia di essere una miseria arma di propaganda in danno dei lavoratori (tutti).
Vogliamo, una volta per tutte, stimare i burocrati e funzionari veramente necessari e non assumere più unità che non servono nell’amministrazione pubblica? No perché delle due l’una: o il progresso tecnologico, volto all’automazione dei processi non umanizzati, serve a qualcosa oppure rischiamo di arrivare alla fuga delle imprese (non verso paradisi fiscali ma verso Paesi fiscalmente virtuosi).
Vogliamo, una volta per tutte, includere i giovani nel sogno dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti chiamata Italia? Fondata sul lavoro. A questo quadro, non esaustivo, aggiungiamo la questione bellica ucraino-russa ed il dado è tratto.
L’Italia deve ripartire come se ci si trovasse dinanzi l’impegno solenne di rifondare il Paese.
Ecco, il 2 giugno è il giorno della ri-Costituzione. Ricostituzione di un Paese fatto di eccellenze che, però, si disinteressa concretamente delle fughe di cervelli. Evitando di scadere nel banale, dobbiamo ricongiungerci verso una pace “sistema – Paese” in cui si comprenda che ci sono punti di riforma non più rinviabili, differibili e sui quali non si può cincischiare per paura di perdere quote di potere.
E allora se la “Repubblica è giustizia” (non giustizialista) non si tentenni ad approvare la riforma in atto (e in futuro a migliorarla ancora) nonché, soprattutto, ad andare a votare per il referendum del 12 giugno prossimo (a prescindere da quel che uno crede sia giusto o meno).
Le urne sono il sacro della democrazia e disertarle dovrebbe farci vergognare di cosa siamo diventati o rischiamo, ben peggio, di diventare: un Paese succube della propria incapacità di partecipazione diffusa. Si dica la verità sul lavoro: il reddito di cittadinanza ha fallito riguardo al fine, mentre come mezzo cuscinetto di povertà è stato argine. Punto e a capo. Cosa facciamo? Vogliamo recuperare le persone al lavoro davvero?
Due questioni da trattare:
– primo, riabilitare chi ha chiuso partita iva medio-piccole ed è finito nel reddito di cittadinanza recuperando, così facendo, l’imprenditore e la sua capacità contributiva oltreché produttiva (o dobbiamo diventare un Paese di assistenza e di acquisto continuo i prodotti esteri a basso costo?);
– secondo, considerare che la dignità salariale passa per la capacità dell’intero sistema Paese di sostenere i redditi in aumento (sempre se l’idea in giro tra Montecitorio e Palazzo Madama è che sia da porre a carico delle imprese).
Questi due passaggi ci impongono una ulteriore verità: che le imprese medio-piccole, su macro scala (basti leggere i dati più significativi e di fonti autorevoli), sono in grande sofferenza fiscale (soprattutto per i due anni di pandemia) e, perciò, va chiarito che l’evasione è cosa diversa dalla morosità.
Non c’è altra strada: o si aiutano le imprese morose oppure chiude il Paese. Quel Paese fatto di piccole realtà produttive di prossimità. Fatto di periferie, di centri storici e di borghi.
Domani è un altro giorno. E’ vero. Ma questo vale finché ce ne sarà uno.
Il 2 giugno ci insegna qual è la differenza tra disperazione e speranza.
Come si dice? La nostra festa non deve finire. Non può finire, per colpa nostra.
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