Gli alti pilastri mi hanno guardato con sospetto mentre il cancello in ferro verniciato di grigio, spalancato sui miei passi, sembrava un sorriso di benvenuto. Da piccolo non ho frequentato le mura color sabbia di questa scuola perché il mio destino mi ha portato a vivere la fanciullezza lontano dalla mia città e nel cuore di quella terra ricca di suoni e colori, profumi e sapori, chiamata Africa, ma la conosco, e riconosco, e non solo perché era il luogo dove ogni anno mi recavo a sostenere gli esami da privatista, per scalare la carriera da studente elementare, ma anche perché, per quasi cinquanta anni, è stata la sede del mio seggio elettorale.
E così anche questa volta entrare nel cortile e salire i gradini dell’ingresso hanno avuto il dolce sapore della memoria che si mescola alla tenerezza. Sono andato alle due del pomeriggio (alle quattordici per i puristi) e in una domenica di bel tempo non mi attendevo code chilometriche. Ma il gentile sorriso di una agente e di un suo collega della Polizia di Stato aveva il sapore strano di un saluto che si tingeva di stupore. Lungo quel corridoio, che tante volte ho calcato, sfilavano gli ingressi delle aule adornate dal numero della sezione: 4, 12, 20, 2 e finalmente la mia, la numero 3.
Vi ho trovato tre gentili signore, o signorine, che mi hanno accolto con entusiasmo e si sono affrettate a darmi gli arnesi per il voto. Chi mi ha registrato, chi mi ha dato la matita, chi le schede. “Non c’è bisogno di mostrare il documento”, mi hanno detto. Era evidente quanto fossero desiderose di spezzare la mortale noia della inoperosità. I cinque “Sì” li ho barrati in un attimo, ed ho sentito i loro occhi puntati tra le mie spalle mentre inserivo le schede nelle urne corrispondenti. Mi hanno salutato con un velo di rammarico e al mio “Buon lavoro”, hanno risposto con un sorriso amaro.
Lungo il corridoio, ripercorso a ritroso, qualcuno si affacciava sulle porte degli altri seggi attirato dal rumore dei miei passi. Lo sguardo deluso nel vedermi andare oltre era anch’esso il testimone della angoscia del vuoto, del silenzio, dell’apatia. Uomini e donne che da ieri stanno lavorando per preparare gli strumenti e i paramenti per una liturgia che oggi si tiene nel vuoto. Angosciante, come lo furono le strade vuote durante il lockdown, come lo furono le immagini del Papa solo nella grandiosa piazza S.Pietro, come lo furono le voci dei calciatori perfettamente percettibili durante le partite giocate negli stadi deserti.
Il tempo per il cammino, percorso in quel corridoio, è stato sufficiente farmi sentire sulla pelle il graffiante tocco della sconfitta. Votare non è un obbligo, è un diritto ma anche un dovere. Un dovere non verso il capo di un partito o un candidato che ci ha chiesto un voto. Anche salutare un conoscente per strada non è un obbligo ma è un dovere, ma non verso il conoscente. Sono entrambi un dovere verso noi stessi, perché essere rispettosi, ci qualifica come persone educate nei confronti degli altri o, come in questo caso, nei confronti delle istituzioni.
I referendum falliranno, non raggiungeranno il quorum, e sarebbe facile prendersela con gli artefici del silenzio, tutti congiurati nel pactum sceleris; sarebbe facile accusare chi lo ha proposto e poi si è dileguato con la codardia del visigoto; sarebbe facile additare le forze politiche che per calcolo e ignavia hanno lasciato soli i riformisti del paese a riempire le vuote trincee della propaganda. No, la colpa non è solo la loro. Ce ne mettiamo un sacco e una sporta pure noi. Perché con la diserzione a questa tornata elettorale dimostriamo che per noi il voto è solo un atto di obbedienza a qualcuno che ce lo chiede e dal quale probabilmente ci aspettiamo qualcosa.
E se ne vanno così in pattumiera, il libero arbitrio, la libera scelta, la facoltà ma anche il desiderio di esprimere la nostra opinione, perché oggi non c’era da scegliere tra tizio o caio ma dire quel che pensavamo su una funzione dello Stato importante e con molti riflessi sui cittadini e della quale poi, tra l’altro, molto spesso pensiamo e parliamo male. Così come parliamo male della casta della politica, per quello che costa al paese, e non ci rendiamo conto che una tornata elettorale nazionale costa come due anni e mezzo di intero parlamento. Non si tratta di tifare per il SÌ, ma per il voto. Oggi non perdono i referendum o chi li ha proposti, oggi non perdono i SÌ e neanche i NO, oggi perdiamo noi, perdono gli italiani, perché abdicando a questo diritto civico dimostrano di non meritare gli altri.
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