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“Babajé”: come la razionalità a volte è un limite

Insegnante, giornalista e scrittore
“Babajé”: come la razionalità a volte è un limite

“Piano piano, anche le uova vanno via con le loro zampette”. Il proverbio della zona del Tigrè (Etiopia) riassume la filosofia di questo diario personale del samaritano Francesco Romagnoli, un uomo di Roma Nord classe 1970 che, dopo un periodo di purgatorio a lavorare nello studio commerciale del padre, a 32 anni ha deciso di rimettere tutto in gioco e andare nel 2002 nel Corno d’Africa, vicino Adua, nella regione del Tigrè.  Benvenuti nel racconto della sua meravigliosa e irrazionale “botta di vita”: Babajé. Il richiamo dei bambini invisibili (Gremese 2022, pp. 208, € 14,90). Chi è “Babajé”? E’ lo stesso autore, chiamato con quest’espressione che significa “papà mio” dalle centinaia di orfani che ha salvato con la sua iniziativa e ai quali ha anche donato, per cognome, il suo primo nome, Francesco.

Tutto ha inizio con una vacanza di un mese, fatta proprio solo per staccare dal consueto tran-tran della Roma dei commercialisti. Ma quel mese cambia la prospettiva del nostro autore e si trasforma in breve tempo in una missione di vita lunga 15 anni. Il diario di viaggio, scritto ex post, racconta dunque come Francesco Romagnoli riesce a organizzare in una delle zone più povere e rischiose del mondo il villaggio dei bambini orfani “James non morirà”, un villaggio-orfanotrofio, con un “feeding centre” per combattere la denutrizione cronica dell’area, un punto di primo soccorso, diverse cooperative di donne che han trovato lavoro ora come mamies ora come tessitrici, mentre gli uomini erano assunti come infermieri, guardie o medici. Il libro, al di là di alcuni cliché stilistici tipo “dolce come il miele”, è scritto piuttosto bene, in modo pulito e avvincente. Le pagine ottengono il risultato di affabulare e stupire il lettore, anche il più cinico, nel semplice racconto di come ogni obiettivo — anche il meno semplice — sia stato “piano piano” raggiunto.

Una delle parti che mi ha più colpito è quando l’autore spiega come ha sopperito alla mancanza di un prodotto nutriente suggerito dall’Unicef per alimentare in modo non traumatico le persone che vengono da un lungo periodo di denutrizione: “Nei manuali dell’Unicef, poi avevo letto di un cibo speciale che veniva usato per la denutrizione e si chiamava F 100, poiché per ogni 100 g di prodotto si assumevano 100 calorie. Scoprii che in realtà si trattava di una poltiglia fatta con latte in polvere, olio e zucchero in dosi ben precise. Non potendone disporre, iniziare a produrlo da solo mischiando, secondo le dosi indicate in consiglio di amici pediatri, I tre ingredienti in grandi contenitori che servivano a riempire successivamente I biberon di tutti i piccoli ricoverati. la miscela non era proprio appetitosa e invitante perché il latte e l’olio non si amalgamavano e quindi in superficie rimaneva uno strato oleoso giallastro che I bambini non amavano affatto.  Ma evidentemente quel miscuglio artigianale possedeva qualche potere speciale dal momento che alla fine del primo anno di attività del centro il 98% dei bambini che avevano bevuto il nostro F 100 era guarito e tornato a casa in ottima salute. Questi risultati sbalorditivi erano il frutto di un lavoro continuo che imparavamo tutti giorno per giorno, facendo esperienza e spesso sbagliando.” (130-1).

Il più delle volte Romagnoli è partito proprio solo da una forte volontà personale, improvvisandosi geometra, ingegnere, giardiniere, pediatra, organizzatore, architetto, magazziniere, assemblatore, psicologo e molti altri ruoli che diventavano via via necessari. L’autore con la sua azione ha salvato o allungato la vita di centinaia di orfani, migliorando quella di centinaia di adulti della zona. L’insegnamento che si riceve leggendo questo diario è quello di capire che a volte un eccesso di raziocinio e razionalità può frenare l’azione, mentre il gettarsi in qualcosa di chiaramente più grande di se stessi, a volte, può essere il modo per realizzare un cambiamento importante.