Paradossalmente, guardando il bicchiere mezzo pieno, il voto di non presenza al Senato è la garanzia migliore per preservare l’autorevolezza politica (ora più che mai) di Draghi, la sua storia, il suo prestigio e, infine, il suo eventuale ritorno. Novantacinque voti hanno sostenuto, ieri al Senato appunto, la “risoluzione Casini” in favore del Premier dimissionario. Il Movimento 5 Stelle, invece, ha deciso di essere in aula ma non sostenendo, chiaramente, quanto sopra: si chiama, in realtà, passaggio in minoranza o anche meglio detta opposizione. Si ma opposizione a chi? Al Governo Draghi o al Governo di Draghi? No perché, a scanso di equivoci, il Movimento 5 Stelle non ha né espresso sfiducia, né votato conto un provvedimento normativo.
E questo perché? C’entra anche il contratto di governo siglato tra Lega e M5S nel 2018. Quantomeno in chiave di senso politico non certo giuridico (quello, semmai, si valuterà in chiave postuma). Partiamo dal fatto cruciale: nella seduta di ieri, Draghi afferma che “Il reddito di cittadinanza è una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”. Proseguiamo, ora, sui fatti ardenti. La Lega, tramite il Sen. Romeo, ha manifestato di voler sostenere Mario Draghi a patto che si modificasse e revisionasse il reddito di cittadinanza. Quindi non l’abrogazione.
Il Movimento 5 Stelle, tramite il Sen. Licheri, invece, ha manifestato che non è disponibile ad arretrare un centimetro sul reddito di cittadinanza. Le parole di Mario Draghi parevano di mediazione implicita, mentre quelle di Lega e M5S di reciproco disconoscimento ideale ma non politico. Il motivo è semplice: entrambe le forze politiche vollero il reddito di cittadinanza, non per mero compromesso in sede legislativa, ma proprio per accordo di programma contrattualmente stadiato. Allora il punto di rottura vero è (così evidente) sulla questione del reddito; tema che la Lega non poteva superare auto bastonandosi e su cui il M5S fonda la sua esistenza residua.
Questione che ha aperto una voragine politica in cui chi ne ha pagato le conseguenze è Mario Draghi il quale ha ripetuto più volte se le compagini fossero pronte a riscostruire il patto di fiducia. Ora, quel contratto di governo fu voluto da Di Maio e Salvini, non da Conte e Salvini. Si dirà giustamente che Conte nulla c’entrasse con quell’accordo. E no, così non è perché da Presidente del Consiglio dei Ministri l’ha portato avanti (e secondo l’art. 95 Cost. “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”).
Ben presto, però, la realtà sociale ha accusato il colpo: le aziende hanno meno offerta sul piatto e c’è meno gente formata per rispondere alle richieste di competenza che il mercato richiede; dall’altra parte le medio piccole imprese (non tutte) che stentano a reggere la botta della crisi e della pandemia non cercano di più ma, semplicemente, si motivano a resistere e rimenare in vita. A questo punto la migliore via d’uscita per Draghi è aver messo sul piatto, ancora una volta, la disponibilità per il Paese ben sapendo che si sta consumando l’ultimo piatto al centro di quel contratto di governo nato maldestramente, eseguito voracemente e comunicato bibbiosamente.
La grande utopia del reddito di cittadinanza, come tra l’altro il Prof. Di Bartolo ha definito la misura (e che lo vedrà a breve in uscita con un saggio in libreria), è il grande punto debole della tenuta di maggioranza del Governo Draghi che, finito con l’esperienza dell’unità nazionale, ora si appresta registrare le valutazioni del Colle tra probabile Governo tecnico, Governo di responsabilità (escluso il M5S) ed elezioni anticipate. Nel frattempo incombe la BCE che a breve dovrà dire all’Italia qualcosina nell’orecchio per fronteggiare lo spread in rialzo, i mercati già febbricitanti e le dinamiche del PNRR.
Ciò significa che per fronteggiare tutto il calderone che alla fine è debito pubblico non si potrà che andare, prima o poi, in trincea per la tanto famosa spending review partendo da un processo logico a monte: differenziare debito da evasione per sottrazione fiscale da quello per morosità esattoriale unitamente al differenziare le spese produttive dal c.d. “carrozzone”. Ecco, prepariamoci alla “politica del dovere” che a quella della città del sole (di Tommaso Campanella) qualcuno nella storia ci ha già pensato e sappiamo com’è andata a finire. Ripensiamo il Paese, ripensiamo il lavoro, ripensiamo la dignità del mandato elettorale. Questo il vero contratto della democrazia e per la democrazia. Il resto è parodia. Ricordiamo tutti il film Pane, amore e fantasia? Ma il Parlamento non è cinecittà o il grande fratello. Buon risveglio Italia.
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