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Carabinieri Piacenza: è davvero un bene che il comandante generale provenga solo dall’interno dell’Arma?

Carabinieri Piacenza: è davvero un bene che il comandante generale provenga solo dall’interno dell’Arma?

Ho già ricordato in mio articolo del 30 luglio che il terreno su cui hanno fatto presa le male piante di Piacenza – con similitudini a certi aspetti di Magistratopoli – sembra essere stato l’eccessivo e spregiudicato carrierismo, che spesso pare essere stato un movente non solo dei Carabinieri infedeli, ma anche di altri dirigenti investigativi. Perché la convalida di quella serie di arresti, da quanto appare senza rilievi da parte dell’autorità giudiziaria, potrebbero, anche se solo in parte, attenuare la responsabilità della locale scala gerarchica dell’Arma, che ha limitatissima influenza sull’attività di polizia giudiziaria dei propri sottoposti. Questa situazione, seppure con sfumature e gradazioni diverse, è rischio che corrono anche tutti gli altri organi di polizia giudiziaria. Il carrierismo più spregiudicato è spesso basato sulla pura ricerca del consenso e la spettacolarizzazione mediatica delle indagini preliminari. Senza nessun collegamento, come dovrebbe avvenire anche per le Procure della Repubblica, con le sentenze passate in giudicate. Troppo spesso di assoluzione, dopo aver rovinato la reputazione, se non la vita, di migliaia di “presunti colpevoli”.

Ma un’altra considerazione che mi sento di fare a proposito di questo carrierismo spregiudicato (che vale non solo per le forze di polizia ma, come visto da Magistratopoli e dal caso Palamara, anche per la magistratura) é che il Comandante Generale dei Carabinieri proviene dalle fila dell’Arma. Anche se solo da poco più di un decennio. Prima infatti il governo (dopo aver sempre consultato Presidente della Repubblica e opposizioni) nominava Comandante Generale soltanto un generale di corpo d’armata dell’esercito, che non sempre aveva la necessaria competenza tecnica per la guida di una forza di polizia, con compiti e peculiarità ben diversi da quelli della sua forza armata di provenienza. Neppure quando quella dei Carabinieri, prima di divenire la Quarta Forza Armata, era la prima Arma dell’Esercito. Stessa cosa avveniva per la Guardia di Finanza. Il fatto però che ora le autorità di vertice di Carabinieri e Guardia di Finanza provengano sempre dall’interno, pur avendo i suoi pregi, non è neppure esente da criticità. In questo decennio, ad esempio, il Corpo della Guardia di Finanza ha saputo offrire al Governo rose di generali di corpo d’armata di grandissima qualità, dalle quali sono stati scelti Comandanti generali di grande valore, che hanno tutti saputo guidare il Corpo con saggezza ed equilibrio, assieme alla capacità di accrescerne il prestigio, sia a livello nazionale che internazionale. Ma la mancanza di apertura delle nomine all’esterno potrebbe alla lunga cambiare le cose. Potrebbe ad esempio un giorno verificarsi una ridotta possibilità di scelta qualitativa da parte del governo, che possa garantire che strutture tra le più delicate per la libertà e la vita democratica del Paese siano messe in mani realmente affidabili. Senza dimenticare poi l’influenza delle cordate interne ai diversi corpi, che potrebbero anche largamente precondizionare dall’interno, e nel corso del tempo, quelle nomine.

Che devono invece appartenere alle sole autorità di governo (che per tali nomine non può mai ignorare i pareri di Presidente della Repubblica e opposizioni), nell’interesse dei cittadini. Non soltanto degli interessi legittimi e di carriera degli alti dirigenti delle forze di polizia. Senza contare poi che quando il Comandante Generale di Carabinieri e Guardia di Finanza proveniva dall’Esercito, era l’unico generale di nomina politica all’interno di Arma e Corpo. Le carriere degli altri ufficiali erano invece molto più indipendenti dalla politica. Da quando il comandante generale proviene dall’interno, invece, i generali che ambiscono alla carica di vertice non possono esimersi dal coltivare rapporti piú stretti con la politica nel corso della loro carriera. Con inconvenienti che, con la presunzione d’innocenza del caso, si sono visti col recente rinvio a giudizio dell’ex Comandante Generale dei Carabinieri Del Sette e del generale Saltalamacchia nell’ambito del caso Consip.

C’è pertanto da chiedersi se non si possa immaginare che, anche per avere la possibilità, quando necessario, di portare aria fresca e discontinuità all’interno di un determinato corpo di polizia, che alla carica di Comandante Generale di Carabinieri e Guardia di Finanza (ma potrebbe dirsi lo stesso anche per la Polizia di Stato) possano aspirare anche i più alti dirigenti delle altre forze di polizia, e magari anche delle altre forze armate. Senza escludere a priori la possibilità che la nomina ricada su un interno. E l’idea non è del tutto fantasiosa, anche se sono certo debba essere adeguatamente digerita dagli stati maggiore delle tre forze di polizia. Perché, potenzialmente, aprirebbe ai loro più alti gradi la possibilità di essere nominati non solo a capo del proprio corpo o arma, ma, in uno spirito interforze già ampiamente sperimentato alla DIA ed ai servizi di intelligence (DIS, AISE e AISI), anche a quello di un altro. Non è idea fantasiosa anche perché è ciò che già accade da anni in altri paesi europei. Come in Francia, ad esempio, dove il Direttore Generale della Gendarmerie Nationale è un civile (prefetto o alto magistrato). Oppure in Spagna, dove la Guardia Civil (che, nonostante il nome, è un corpo di polizia a ordinamento militare, come Carabinieri e Guardia di Finanza), da quando il tenente colonnello Antonio Tejero, il 23 febbraio 1981, al comando di 200 militari della Guardia Civil, assaltò con pistola in pugno il parlamento spagnolo e sequestrò tutti i deputati, ha come Direttore Generale un esterno. Spesso un civile, in un caso addirittura un Generale di brigata (quindi di grado inferiore ai generali di Divisione della GC) dell’Aeronautica militare.

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