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Come le notifiche sul cellulare condizionano il nostro quotidiano e la nostra concentrazione

Giornalista freelance
Come le notifiche sul cellulare condizionano il nostro quotidiano e la nostra concentrazione

Nel suo Scansatevi dalla luce. Libertà e resistenza digitale (Edizione effequ), James Williams – un passato da strategist di Google e un presente da filosofo oxfordiano – conta più di 11 miliardi di notifiche che il sistema operativo Android invia al suo miliardo e passa di utenti: i bip di email, messaggi whattsapp, social network e applicazioni mobili fanno, così, da contrappunto sonoro alle attività quotidiane delle vite di ciascuno. Tanto che spesso si lamentano dimenticanze paradossali: “Volevo accendere il bollitore per fare il tè, ma poi Candy Crush mi ha ricordato che non gioco da qualche giorno”.

Gli studi cognitivi, però, spiegano che quando una persona è concentrata e viene interrotta, ha bisogno, in media, di ventitré minuti per ritrovare la concentrazione perduta. Per di più, aggiungono gli studiosi, dal momento che la memoria umana non dispone di praterie sconfinate dove immagazzinare informazioni e dati, quando la notifica di un’applicazione disturba il “flusso” di pensieri, di fatto occupa spazio prezioso, sottraendolo a risorse, idee, visioni già esistenti.
E come se non bastasse, l’esposizione a notifiche ripetute può generare abitudini mentali che allenano l’utente a interrompersi anche in assenza degli stessi dispositivi tecnologici. Che si toccano, in media, più di 2600 volte al giorno: una sorta di abito mentale confezionato con il tessuto scadente della distrazione cronica.

Un abito divenuto, al tempo stesso, collettivo e contemporaneo e che indossato, condiziona enormemente l’esercizio delle libertà individuali: lo preconizzava Neil Postman nel suo Divertirsi da morire. Nel 1985, infatti, l’educatore e critico dei media Usa, citando Aldous Huxley, scriveva: “La lungimiranza di Huxley sta nella previsione che i più odiosi avversari della libertà negli anni a venire sarebbero emersi non dalle cose che temiamo, ma dalle cose che ci danno piacere”.

E non si può certo affermare che agli esseri umani dispiaccia essere coccolati dal messaggio istantaneo di un amico lontano, vezzeggiati dal compagno di gioco a Fortnite oppure riconosciuti nel proprio ruolo da una mail di lavoro.

Ci si fida delle tecnologie pensandole come sistemi che accompagnano nella vita quotidiana, esattamente come tanti “GPS esistenziali”, ma il problema – argomenta nel suo libro Williams – è che “l’industria tecnologica non progetta il design dei prodotti: progetta gli utenti stessi”. O, quantomeno, ne ha l’ambizione.

L’unica via d’uscita è averne consapevolezza. Quella che serve a capire che per realizzare le scelte giuste e compiere i passi importanti, si debba prima essere capaci di prestare loro attenzione. E non a caso, in inglese, si dice “to pay attention”, letteralmente, “pagare attenzione”: in effetti, l’attenzione non è gratuita, scrive Williams, perché «si paga in termini di futuri a cui si rinuncia».

Si paga l’ora extra sui social media con le ore di sonno perse e la sensazione di freschezza che non si avrà all’indomani e si paga l’aver abboccato all’esca del clickbait con la rabbia che si prova per tanta ingenuità. In quest’ottica, la questione dell’attenzione si sovrappone a quella della libertà di scegliere la propria destinazione, di deviare quando si vuole cambiarla e di chiedersi, in qualsiasi momento, se non sia il caso di fermarsi.