Con le Presidenziali americane dietro l’angolo, i motori sono al massimo dei giri per entrambe le campagne. A voler essere precisi, per entrambe le war room.
Coordinare strategia, comunicazione e messaggi di un candidato è la mansione una e trina di una war room. “Stanza della guerra” – traducendo letteralmente in italiano – è una formula che rimanda piuttosto bene al concetto di polarizzazione che la politica vive a livello mondiale. Non a caso, il primo esempio di war room si ha nel 1992 – naturalmente negli Usa – per l’elezione di Bill Clinton. A seguire, Tony Blair (1997), che si affida a Peter Mandelson e a Philip Gould, rispettivamente consulente strategico e sondaggista.
In Italia è – altrettanto naturalmente – Silvio Berlusconi a introdurre questo tipo di gestione della campagna elettorale: una riunione a settimana ad Arcore, definita “tavolo per l’Italia”.
Ma da qualche mese, se dici “War room” pensi all’ultimo libro di Luigi Di Gregorio (Rubbettino editore, 379 pagine, 24 Euro). Un libro che, come ho avuto modo di dirgli, è un vero e proprio manuale. Si parte dall’analisi puntuale del ruolo di politica, partiti, leader e elettori nella campagna permanente, arrivando alla Control Room permanente, passando per il marketing politico teorico e pratico. La nuova tappa del tour di presentazioni lo porterà stasera presso la sede di Comin&Partners, in Piazza Venezia, a Roma.
Luigi Di Gregorio è professore aggregato di Scienza Politica presso l’Università della Tuscia di Viterbo. Insegna Campaign Management in diversi master e scuole di specializzazione, ed è certamente tra i più apprezzati docenti all’interno del Master di II livello in Comunicazione e Marketing politico e istituzionale della Luiss, diretto da Francesco Giorgino. Svolge da tre lustri attività di consulenza politica a livello regionale, nazionale e sovranazionale.
Nelle pagine spieghi in maniera certosina il funzionamento di una “war room”. Come nasce l’idea non di un libro, ma di un manuale vero e proprio?
L’idea ce l’avevo in mente da anni. Volevo provare a miscelare le mie due esperienze, quella accademica e quella da consulente politico, cimentandomi in un lavoro che non ho mai trovato, neanche guardando alla letteratura statunitense. Lì è facilissimo imbattersi in libri solo accademici di marketing politico oppure solo aneddotici scritti da consulenti, ma nessuno ancora aveva provato a “fondere” questi due “saperi”. Ne è venuto fuori una specie di manuale sia operativo sia, per certi versi, di politica contemporanea. Credo – e spero – che sia un esperimento riuscito.
Negli ultimi anni si parla tanto del passaggio mediatico da comunicazione politica a marketing politico, dinamica che nel libro analizzi con dovizia. Io credo che la comunicazione politica resti comunque una componente fondamentale dell’intero processo. Sei d’accordo o secondo te oggi il marketing è padrone?
Sono fondamentali entrambi, purché ci si intenda su cosa sia il marketing. In Italia, spesso è utilizzato come una “parolaccia”, con una valenza molto negativa. Quando sentiamo dire “è solo un’operazione di marketing” in realtà non stiamo rendendo giustizia al concetto e alla disciplina. Il marketing è “semplicemente” un’attività di studio del proprio pubblico (o mercato), per provare a individuare i desideri e i bisogni e profondi e lavorare per attivare una connessiva emotiva duratura con consumatori-cittadini-elettori. Vale per i brand commerciali come vale per i brand politici. La comunicazione rientra tra le attività chiave del marketing. Seguendo il “guru” Philip Kotler e le sue 4 P (4 leve decisionali), Product, Placement, Price e Promotion, l’ultima racchiude la componente della comunicazione, che è ovviamente sempre più centrale nell’economia dell’attenzione. Oggi saper comunicare significa farsi notare in un vero e proprio diluvio informativo e farsi ricordare in un contesto caratterizzato dall’oblio immediato. Su questo, a mio avviso, c’è tanto da fare ancora in Italia. La comunicazione politica è ancora scarsamente “professionalizzata”, un po’ perché i partiti sono stati abituati a fare “tutto da soli” per decenni, un po’ perché nel nostro paese c’è una convinzione profondamente sbagliata – anche in ambito aziendale: ossia che “saper fare” qualcosa implichi anche “far sapere”. Se faccio un buon prodotto o se ho un buon programma politico, questi comunicano e “si vendono” da soli. Non è affatto così. Non lo è mai stato, tantomeno lo è oggi, con l’eccesso di offerta di informazioni (e di distrazioni) in cui siamo immersi.
Le war room in azione in queste settimane sono quelle Oltreoceano. Quale delle due si segnala per colpi di genio e/o per qualche clamoroso colpo a vuoto?
Non ho visto particolari colpi di genio. Di sicuro ho visto un lavoro importante su Kamala Harris, sia di strategia – mentre Trump inevitabilmente polarizza, lei ha cercato di parlare di più agli elettori moderati e indecisi, smussando le sue posizioni più radical – sia di comunicazione, specie quella non verbale, lo si è notato nell’unico duello TV tra i due candidati a Presidente. Ma Trump continua ad avere due vantaggi: 1) nella comunicazione verbale è imbattibile, perché riesce ad arrivare a tutti, con messaggi ipersemplificati ed emotional e 2) nei temi che “spostano” di più ha posizioni più nette e convincenti. Parlo di immigrazione, sicurezza, inflazione… i temi che spaventano maggiormente e che di conseguenza mobilitano di più. Le emozioni sono predisposizione all’azione e la paura è l’emozione regina nel mobilitarci. È un tentativo in corso anche da parte dei Democratici che tuttavia stanno cercando di spaventare con l’equazione Trump = fascista. Non è una novità e finora non mi pare abbia portato lontano.
A un certo punto del libro citi un aneddoto che riguarda Berlusconi e il suo esclusivo interesse per la posizione della telecamera in una convention. Un unicum per i tempi. La tv di allora è il digitale di oggi, o l’analogico conserva un certo spazio di manovra?
Tra i mass media non avviene mai una sostituzione totale, quanto piuttosto un’accumulazione e integrazione. La TV non ha fatto sparire la radio, né quest’ultima ha fatto sparire i giornali. Si sommano e si integrano. Ciò vale ancor di più oggi, nel cosiddetto sistema ibrido dei media. Ibridazione vuol dire coesistenza e integrazione tra quelli che sovente vengono definiti nuovi media (Web, social network, blog, piattaforme di messagistica) e i media tradizionali (TV, radio, giornali). L’ibridazione è data dalla loro interdipendenza e fluidità (le notizie circolano e rimbalzano dai media analogici a quelli digitali e viceversa), dall’interazione tra gli attori (anche i cittadini possono diventare citizen journalist o reporter improvvisati), dalla coo-petizione tra vecchi e nuovi media che nello stesso tempo competono e collaborano per dar vita all’agenda mediatica. Se volessimo tradurre tutto questo in un esempio: un tempo, fare un comizio in una piazza significava parlare solo a quelle persone, in modalità sincrona e davanti a un pubblico amico e numericamente circoscritto. Oggi fare un comizio in una piazza attiva quello che nel team della “bestia” di Salvini avevano battezzato come il modello T-R-T: Territorio, Rete, Televisione. Si parla alle persone presenti al comizio, sapendo però di essere filmati e fotografati per cui si rimbalza in rete; e se il contenuto è appetibile in termini di media logic televisiva, una clip di quel comizio può finire anche in TV. Su una cosa però la televisione è ancora regina: è il mezzo che “certifica” l’autorevolezza. Ed è ancora quello più utilizzato per informarsi di politica.
Anche in Liguria l’affluenza è in calo vertiginoso rispetto al passato: siamo ancora in piena “demopatia”. Colpa del digitale? La disintermediazione ha portato anche disaffezione e allontanamento o le cause sono anche altre?
Le cause sono tantissime e profonde. La partecipazione elettorale comincia a calare già negli anni ’90 in tutte le democrazie consolidate. E quel trend non sembra arrestarsi, tranne in rare eccezioni. La verità è che la politica post-ideologica fatica a mobilitare gli elettori, a fidelizzarli, a colmare il “vuoto di futuro”. Siamo diventati una società individualizzata e narcisistica – per dirla con Bauman e Lasch – e questo complica le cose alla politica, come a tutti i corpi intermedi. Non a caso c’è una crisi della rappresentanza a tutti i livelli. L’evoluzione tecnologica e mediatica ha di certo un suo peso, ma non è la variabile indipendente. Al massimo è un catalizzatore, un acceleratore di certe tendenze che sono prima di tutto sociali e culturali. In più, la globalizzazione e le organizzazioni sovranazionali hanno tolto alla politica centralità e capacità di incidere. E questo ormai è percepito da molti cittadini che decidono di non votare perché sono convinti che la loro traiettoria esistenziale dipenda esclusivamente da loro e in nessun modo da un governo, nazionale o locale. Ciò comporta che a votare vadano tendenzialmente i tifosi e che la polarizzazione sia premiante. E qui sì, sicuramente i social network hanno un peso, perché fanno della polarizzazione e della logica binaria (noi contro loro) un modello di business. Banalmente perché i contenuti più divisivi creano più engagement emotivo e psicologico e dunque ci attivano maggiormente come utenti delle piattaforme.
Nel tuo libro precedente, “Demopatia” appunto, parlavi di “sondocrazia permanente”, con i politici ridotti a inseguitori degli umori dell’opinione pubblica. Credi sia cambiato qualcosa? Che orizzonte vedi?
Qualcosa può esser cambiata in virtù del fatto che veniamo da anni molto complessi e difficili, tra la pandemia, le guerre, la crisi energetica, l’inflazione, ecc. Questo ha aperto gli occhi su certe tematiche e ha, per certi versi, rimesso al centro la complessità. Tuttavia, certe traiettorie sono solide e difficili da invertire. E, purtroppo, quelle traiettorie costituiscono i limiti strutturali della politica contemporanea. Per dirla con il linguaggio del marketing, alla politica oggi manca il purpose. Il purpose non è solo un obiettivo strategico, ma soprattutto uno scopo, una causa profonda che va oltre il mero successo elettorale e che è capace di mobilitare gli elettori e creare una connessione emotiva duratura con loro. In altre parole, è quella visione di lungo periodo che permette di spiegare perché un partito o un leader esistono, e cosa li differenzia dagli altri, intercettando i bisogni profondi dell’elettorato. Prima che un problema di comunicazione, dunque, si tratta di un problema politico. Lo schiacciamento sul presente, la comunicazione più tattica che strategica e la leadership che si trasforma in followship (in un inseguimento continuo delle oscillazioni dell’opinione pubblica) fanno sì che leader e partiti oggi diano vita a un contesto molto diverso da quello dei partiti di massa novecenteschi, il cui purpose era chiaro e definito ideologicamente. Quella chiarezza faceva sì che gli elettori fossero “fidelizzati” e di conseguenza che i partiti non finissero in un vortice di contraddizioni permanenti e una costante crisi d’identità.
Questo deficit di definizione dell’identità dei partiti è rafforzato dalla centralità dei leader e dei loro tratti personali, prima che politici. Le persone sono decisamente più vulnerabili e “camaleontiche” di un’ideologia e generano una “fedeltà leggera” sempre più breve, confermata dalla scarsa durata dei cicli di leadership più recenti. La credibilità di una persona non può sostituire il purpose di un’organizzazione. Quando ciò accade l’organizzazione si personalizza e la sua sopravvivenza diventa legata, appunto, alla credibilità suo leader.
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