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Contante? Non è un demone. Evasori attaccabili con migliori politiche.

Giurista, saggista, editorialista
Contante? Non è un demone. Evasori attaccabili con migliori politiche.

La lotta al contante è un problema atavico le cui radici nascono dalla sfiducia e dall’uso monetario illegale che, talvolta, alcuni commettono consapevolmente o meno.

Qui, però, si cerca di offrire alcune riflessioni che possono consentire di invertire il paradigma “contante cosa brutta”. Per farlo bisogna dotarsi, idealmente, di una scala a piramide inversa la cui base è il “principio” a cui segue, come gradino successivo, il “valore delle cose” ed in ultimo “l’obbiettivo contemporaneo e quello programmatico”.

Nel primo di questi step piramidali (il principio) prendiamo per utile il concetto etimologico di “moneta”: il termine può essere inteso sia in senso positivo che negativo perché si linfa si significato, stando ai più, dal tempio eretto a Giunone in Campidoglio ove era situata la zecca romana (senso positivo). Il nome di questo tempio era, appunto, “Moneta” ovvero monitrice dell’arrivo di un flagello sul popolo romano (senso negativo).

Da questo aneddoto storico, che in verità ha investito anche lo studio etimologico greco (la cui desinenza ETA – della parola moneta – richiama a sua volta il concetto del rappresentare il valore, designare, ecc.), non sfugge il c.d. “conio”: dal latino “Cuneo”, sempre etimologicamente parlando, sarebbe uno strumento antico di metallo o di legno, a seconda delle evoluzioni dei popoli, che in antichità aveva forma, appunto, piramidale per incidere, fendere, penetrare, calzare, ecc. Successivamente, in epoca meno antica, strumento funzionale ad imprime su monete e medaglie.

Ovviamente la moneta è stata ideata per sostituire il cosiddetto scambio beni per baratto (cioè cosa per cosa). Detto ciò, la moneta è un titolo al portatore ovverosia chi la detiene manifesta una signoria sul proprio avere. Il ché non significa per forza di cose identificare tale atteggiamento di signoria come uno sprezzante approccio di colui che ha e compra, ma semplicemente come il rapporto di colui che ha un valore nelle mani che, se riconosciuto dal mercato legale, produce scambio, ricchezza, virtuosità.

Ecco il senso della virtuosità ci porta inevitabilmente a sdoppiare l’analisi su due direttrici: una verso la moneta reale circolante, l’altra verso il valore bancariamente disponibile. La prima è il mezzo riconosciuto come legale per far fronte alle obbligazioni tra titolari di beni al portatore (nasce, in buona sostanza, dagli usi e dalle consuetudini); la seconda è strumento collaterale alla prima al fine di controllare tutti gli scambi (salvo deroghe) e determinare, così facendo, l’effettivo controllo a maglie strette sull’agire collettivo (e quindi necessita di una scelta politica vera e propria).

Se queste due direttrici hanno una dignità di ragionamento in termini di principio, allora, possiamo passare al rapporto che questi hanno in ordine al “valore delle cose”.

Il valore delle cose è determinabile in diversi modi: per prezzo, appagamento, frutti, ecc. Sempre il valore delle cose si ramifica partendo, tuttavia, da una radice comune rispetto a quanto innanzi elencato: la necessità dell’individuo di raggiungere e detenere beni essenziali della vita e poi altro.

Intorno a quest’ultimo passaggio si sono evolute diverse teorie politiche negli ultimi secoli: il comunismo e il liberismo ne sono esempi da manuale (di estramizzazione). Nel primo caso si vuole l’abolizione del capitale in un sistema di eguale distribuzione dei beni essenziali dettata da logiche di Stato; nel secondo la distribuzione avviene per effetto dello scambio e della concorrenza che ribassa i prezzi e rende democratico l’accesso con quote crescenti di soddisfazione dei consociati (cioè i partecipanti alla produzione ed al mercato).

Entrambi i sistemi, a parare di chi scrive, portano allo stesso punto di crollo: l’esasperazione dei partecipanti che nel comunismo sono in stato passivo (quindi meri elementi sociali da “soma”), mentre nel liberismo sfrenato sono in stato attivo (cioè costantemente alla ricerca del “fagocitamento economico altrui” fino a che non ne rimarrà nel mercato solo uno – una sorta di selezione naturale del più forte sul più debole).

Le due impostazioni economiche, comunque, conducono ad una sorta di dittatura da parte dei distributori dei beni essenziali verso gli avventori o consumatori che, molto più esplicitamente, vivono in una dimensione di sottomissione vera e propria.

Ora, cosa c’entra questo cappello introduttivo con la questione del contante lo si cerca di spiegare con il collegamento ultimo che c’è tra il senso della democrazia e quello delle dittature.

Non a caso si è parlato del valore delle cose prima di giungere sin qui perché l’accessibilità ottimale e virtuosa dei beni è mantenuta solo se il sistema economico stesso è in tensione bilanciata od oscillante (sostenibile) tra gli attori della produzione, dello scambio e del consumo.

Il metro della tensione (positiva in questo senso) è dato dalla moneta reale circolante che rappresenta la capacità di acquisto di determinati beni ad una certa velocità di relazioni tra gli attori ed ad un certo prezzo fissato dal mercato o risultante dalle politiche calmiere (od anche l’opposto) dello Stato.

La velocità, in via specifica, è un ingranaggio dello stato di tensione che, quindi, fa comprendere come la microeconomia necessiti di un rapporto costante di circolazione quotidiana.

Più veloce è la portata di scambio in una determinata “piazza”, maggiore è la possibilità di valorizzazione ed apprezzamento dei beni in quel determinato mercato che, piano piano, alimenta inflazione tollerabile (salvo la disponibilità di moneta circolante che deve essere diminuita od aumentata a seconda delle necessità di politiche di stabilizzazione e su questo piano il c.d. “tetto al contante” non è funzionale).

In una parola: virtuosità del sistema dipende non dal limite al contante, ma dalla sua capacità di esser impiegato e manifesto. La traduzione ulteriore sta a suggerire una massima: per l’evasore, lo spacciatore, ecc. il limite al contante è percepito in totale indifferenza potendo tali soggetti accedere a tutti i beni possibili utilizzando altre vie: ad esempio il riciclaggio. A questo si attende il limite all’uso del contante, non alla lotta all’evasione in senso stretto.

Torna utile la politica della fiducia: se tutti gli attori sono leali nel rapporto reale, pagando le imposte e le tasse in “maniera proporzionale, tra gli scambiatori di beni nel mercato legale, non si genera la c.d. disaffezione sociale verso lo Stato. Questo sentimento è, di tutta evidenza, il motore di due cose: l’evasione fiscale (a sua volta psico-socialmente di due tipi: di sopravvivenza; di ingordigia) e la nascita di mercati paralleli (ad esempio il contrabbando).

Ovviamente, ispirandoci al principio della legalità, sia l’evasione che il mercato parallelo sono espressioni negative del rapporto di fiducia e fedeltà costituzionale (art. 54). Questo però è un sinallagma che non può essere preteso a monte verso il cittadino, il quale ultimo, se vessato, subisce un vero e proprio flagello nel dover mantenere uno Stato incapace di rendere virtuoso il mercato nel quale dovrebbe operare legalmente ed in cui moneta e beni devono rendere sostenibile il sistema stesso della pubblica amministrazione.

A questo punto serve fissare l’obbiettivo comune (politicamente parlando) composto di due parti: uno contemporaneo, uno programmatico. Una sorta di patto fiscale-costituente partendo da una domanda di fondo. Cos’è più dannoso? La moneta contante o uno Stato opprimente?

Entrambi lo sono quando risultano frutto di distorsioni e di assenza di fiducia (dei cittadini verso lo Stato e viceversa). Il dato contemporaneo (al 2021) ci consegna dei numeri chiari e spaventosi:

  • 59 milioni circa di cittadini;
  • 16 milioni circa di pensionati;
  • 9,8 milioni circa di minorenni;
  • 18 milioni circa di lavoratori dipendenti;
  • 5 milioni circa di partite iva
  • 16 milioni circa di persone iscritte a ruolo fiscale e sottoposte a procedure esattoriali.

Come può notarsi quasi 1 cittadino italiano su 3 ha problemi con il pagamento nei confronti dello Stato. Significa che sono tutti evasori? No. sarebbe una aberrazione culturale e fattuale. Tra gli iscritti a ruolo esattoriale ci sono tantissimi morosi, anche illegittimamente sanzionati, incapaci di poter fronteggiare l’impegno fiscale vuoi per cambiamento della capacità contributiva, vuoi per cambiamento della virtuosità economica del Paese e del mercato di riferimento, ecc. Tra questi anche chi non ce la fa a difendersi perché non ha accesso al patrocinio a carico dello Stato (in quanto non attualizzato al momento di capacità contributiva e necessità difensiva).

Se l’evasione fiscale italiana ammonta a circa 1.100 miliardi di euro ed “ogni hanno entrano nelle casse dello Stato solo 10 miliardi a fronte dei 70 da riscuotere” (dichiarazione di Ernesto Maria Ruffini dell’Agenzia delle Entrate in Commissione parlamentare – fonte Ansa, 7 aprile 2022) un motivo c’è. Di contro la corruzione ammonterebbe a circa 237 miliardi l’anno con un indice di percezione del fenomeno di corruttela aumentato del 14% negli ultimi dieci anni (fonte Autorità Anticorruzione, 25 gennaio 2022). Guarda caso proprio dal 2011 in poi ovvero da quando il limite del contante è stato portato al livello minimo della storia repubblicana.

Allora c’è uno stretto legame tra peso fiscale dello Stato e virtuosità del sistema economico che si regge, negli scambi, con moneta avente corso legale (art. 1277 codice civile) e non con disponibilità bancaria (che si basa su criteri di credibilità del debito o della giacenza).

Se c’è sproporzione tra il chiesto (Stato) e l’effettivamente pagabile (cittadino) si genera, automaticamente ed antropologicamente, sfiducia e quindi il metro della tensione si sposta dal valore delle cose del mercato al valore della sopravvivenza vera propria (esempio classico: l’esercente che pur dichiarando tutto non riesce a pagare le imposte perché con quest’ultime deve fronteggiare la carenza di vendite dei giorni o mesi successivi rispetto al momento del versamento all’erario che avviene, come sappiamo, negli anni successivi).

Se, invece, avviene il contrario è giusto che lo Stato combatta il fenomeno perché si cade nell’ingordigia (esempio classico: colui che non dichiara per farsi le vacanze alle Hawaii).

La questione di fondo di questa analisi giunge verso la conclusione con una domanda ulteriore la cui risposta non è facile. Eliminare il contante o limitarlo può giovare al virtuosismo economico di un determinato sistema? Si, ma dipende quale sistema si vuole imporre per due motivi:

  • eliminare il contante significa espropriare di fatto lo Stato di emissione titoli al portatore (che hanno sempre una matrice di derivazione e, quindi, sottoponibile a controllo perennemente);
  • eliminare il limite all’uso nei pagamenti tra privati, risulterebbe eccessivo rispetto alla necessità di controllare che i titoli al portatore non escano dal virtuosismo ideale del mercato voluto.

Occorre, pertanto, una via di mezzo. Molti Paesi europei (Olanda, Austria, Germania, Lussemburgo, Ungheria, Irlanda, Estonia, Finlandia, Cipro, ecc.) non hanno il limite all’uso del contante. Cosa legittima, ma che necessita di altro approfondimento.

Ebbene, per quanto riguarda la nostra penisola, lo studio della Banca d’Italia dell’ottobre 2021 (come afferma il Prof. Antonio Tomassini il 04 novembre 2022 in una intervista su Il Settimanale), l’aver alzato il limite all’uso del contante nel 2016 ha portato all’aumento di fiducia tra gli attori del mercato: l’aumento a 3.000 euro del limite del contante per le operazioni di transazione ne ha comportato l’aumento dell’1% così da ingenerare maggior gettito fiscale.  Significa che occorre innestare, per maggiore virtuosismo e legalità, anche una politica dell’interesse e del contro interesse: cioè pretendere lo scontrino per altri fini-beneficio (detrazioni ad esempio).

In definitiva, perché demonizzare il contante quando il principio è solo uno: se il cittadino dichiara tutto quale paura ha lo Stato di non fidarsi della stessa moneta che mette in circolo?

Forse, più che paura occorrerebbe iniziare da una commissione d’inchiesta per valutare chi sia il titolare del sistema bancario privato e quanti dei politici o chi per loro partecipano ai relativi dividendi.

C’è una frase utile per finire: “ma chi va in giro con 10.000 euro in borsa”? Si presume, nessuno. Aggiungerei una domanda: e perché non ci deve essere se una persona dichiara tutta la sua ricchezza?

Vogliamo combattere davvero il riciclaggio, l’evasione, ecc.? Bene, iniziamo a far spendere queste persone, smascherando la loro reale capacità, facendo emergere la spesa reale e perseguiamole per quanto non dichiarato. Se no il tutto è solo propaganda e demonizzazione.

Possiamo togliere il contante, ma almeno a due condizioni di partenza: abolendo per legge la povertà (seriamente) ed abolendo la partecipazione privata nelle banche (quindi regolamentando davvero i profili di conflitto). Questo, però, sarà un altro mondo. Chissà quale.