“Un sistema che da deroga è diventato regola”. C’è questo alla base de “L’inganno. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, il nuovo libro di Alessandro Barbano, edito da Marsilio, presentato nei giorni scorsi a Roma e Milano. Nello scritto, Barbano – già direttore de Il Mattino di Napoli e vicedirettore de Il Messaggero e oggi condirettore del Corriere dello Sport – sottolinea la volontà di “raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori”. Sottolineare, cioè, le storture di un sistema che spesso si palesa come un sistema malato.
L’input, come egli stesso afferma, è la storia di Riccardo Greco. “Un imprenditore di Gela – afferma l’autore – che aveva denunciato, facendoli condannare, i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, ma che fu poi per anni perseguitato dallo Stato. Greco era una vittima, ma ciò non impedì a un Prefetto di porre una interdittiva antimafia. Allora l’imprenditore consultò l’avvocato, affermando di voler passare il testimone ai figli. Ma i provvedimenti che pendevano sulla sua testa sarebbero stati loro ‘trasferiti’. Capì che il problema era lui e decise di farla finita”.
Questa è la storia che dà lo spunto al libro. Naturalmente, non tanto e non solo per raccontare un fatto di per sé tragico, ma per andare alla sua base, alla sua origine. “E l’origine – dice Barbano – non può essere che in un sistema malato, quello dell’antimafia, che ha sviluppato uno schema in cui un imputato può vedersi, da un lato, assolto per non aver commesso il fatto ma, dall’altro, vittima di un provvedimento di confisca. Nello stesso giorno. Perché se la condanna ha bisogno di avere delle prove, per la confisca è sufficiente il compendio indiziario, si pensi alla dichiarazione di un pentito. Ma come spieghi a un cittadino che nel momento stesso in cui gli dici che è innocente, gli stai prendendo tutto?”, chiede Barbano con una domanda che sa che, purtroppo, non avrà risposta.
“A ciò si aggiunga un altro particolare non di scarsa entità: per questo tipo di provvedimenti – prosegue l’autore – è stato allargato notevolmente l’ambito di intervento: si è passati dalla pericolosità qualificata alla pericolosità semplice. Oggi sono ricomprese non solo fattispecie legate a reati di mafia, ma anche quelle legate, ad esempio, ai reati di stalking. Tutto viene considerato emergenza, e a tutto viene applicata una norma emergenziale. Il 41 Bis o l’ergastolo ostativo sono diventate regole, quando in realtà sono deroghe. Ciò è possibile perché la giurisprudenza ha sostenuto e promosso una torsione autoritaria nella sua stessa applicazione”.
Casi emblematici di quanto lei dice potrebbero forse essere considerate le azioni-retata che sempre più spesso caratterizzano l’attività inquirente? “Esatto, e questo avviene in particolare nel Mezzogiorno d’Italia, dove spesso assistiamo a retate da qualche centinaio di arresti che si concludono con poche condanne”. E non è per niente casuale che le Procure che commettono più errori siano quelle di Reggio Calabria, Napoli e Catanzaro.
Ma è possibile porre un freno a tutto questo, magari mettendo mano al Codice Antimafia? “Certamente. Bisognerebbe ricalibrarlo alla dimensione dei primi anni ’80, quando erano previste conseguenze per l’accertamento penale. Chi viene assolto non può vedersi confiscato. C’è bisogno di maggiori garanzie, non si può assistere, ad esempio, ogni volta al riempimento a piacimento di quella scatola vuota che è il reato di concorso esterno”. “La verità – conclude Barbano – è che spesso vediamo magistrati che agiscono come becchini dello stato di diritto, che piegano a torsioni giustizialiste a causa di una cultura inquisitoria purtroppo dilagante”.
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