Decidere di delegare la propria soggettività allo Stato non è mai una buona cosa.
Lo Stato non è buono e non è cattivo, non è giusto e non è ingiusto. Lo Stato non è un soggetto metafisico, non è etico, non ha ragione e non ha torto.
La democrazia rappresentativa è un sistema di governo frutto di un compromesso e di una mediazione tra le varie soggettività che compongono lo Stato, inteso come espressione territoriale e politica.
I soggetti cedono sovranità in una certa quota, concordata, in cambio di protezione, ma si tengono per loro una grande prerogativa: quella di sottoporre le proprie scelte ad una verifica periodica, togliendo al Sovrano quelle caratteristiche di assolutezza che, da sempre, aveva dovuto incarnare, per potersi assicurare il potere.
La democrazia rappresentativa si sviluppa di pari passo con l’affermazione della borghesia come ceto dominante, andando ad intaccare la special relationship tra il re ed i suoi sudditi.
Alcuni popoli hanno dovuto materialmente decapitare il re, per siglare il nuovo compromesso sociale. Altri popoli, maggiormente evoluti da un punto di vista relazionale, hanno potuto mantenere il simbolo della monarchia addirittura a garanzia del nuovo sistema di governo.
L’Italia, in questa storia “recente”, rientra solo tra parentesi. Nazione relativamente giovane, non omogenea, e frutto di una annessione violenta e non consensuale, non ha avuto la possibilità di transitare alla rivoluzione borghese in modo lineare. Il continuismo con il passato è rimasto molto, troppo marcato.
Una burocrazia strabordante si è inserita come un cancro all’interno delle istituzioni, costruendo il suo dominio incontrastato proprio sulla debolezza di un popolo non sufficientemente coeso e pronto alla nuova modernità. Ecco perché abbiamo conosciuto la dittatura, ecco perché l’abbiamo sempre rimpianta e mai sepolta, ecco perché lo Stato da noi continua a conservare caratteristiche sovrannaturali.
Tuttavia, anche l’Italia ha conosciuto un’evoluzione: sempre tortuosa, osteggiata da mille segreti, massonerie, golpismi, stragismi, spalleggiati da una mafia dilagante ed al soldo del potere più retrivo. Eppure, per un breve periodo, siamo arrivati anche noi a smitizzare il posto fisso e le seduzioni del socialismo di stato.
Ma ora cosa sta succedendo? Sembravamo maturati, finalmente moderni, nonostante le contraddizioni evidenti.
Ebbene, il Covid è riuscito ad insinuarsi nei nostri tratti più popolani: il nostro atavico essere mammoni ci ha proiettati verso lo Stato mamma, che decide in modo perentorio di chiuderci in casa, toglierci il lavoro, ma infine mantenerci.
La dittatura sanitaria, termine tanto vituperato, è proprio questo: la paura è la leva di ogni autoritarismo. Grazie ad essa, possiamo protrarre il regime speciale ad libitum, con comportamenti normati per decreto.
Il lavoro statale è tornato ad essere una chimera, l’obiettivo definitivo. L’iniziativa personale è rimandata a tempi migliori. Il salario viene sostituito dai sussidi, in cambio dei quali cediamo non solo la nostra libertà, ma il nostro senso di responsabilità.
Lo Stato, infatti, ci chiede di essere irresponsabili, in modo da poter intervenire a normarci, a disciplinarci, a forgiarci secondo un’etica assoluta ed indiscutibile.
La paura è un sentimento che si coltiva da anni: la paura dei meridionali, la paura degli immigrati, la paura dei terroristi, oggi la paura del virus.
La paura genera instabilità, e genera sopruso. Chi ha il monopolio del controllo vede crescere a dismisura le proprie prerogative. E le persone comuni, non potendo contare su principi condivisi, ma esclusivamente sull’irrazionalità del capo, tendono a voler fare bella figura. Non tanto per ricevere un premio, ma perché è meglio non avere rogne.
Il terrorismo rosso è stato sconfitto con la delazione. Non è giusto, né sbagliato. E’ andata così. I risultati hanno consentito di riprodurre il metodo nella lotta alla mafia. Lo stigma dell’infamia si conforma alle nuove forme di controllo. I risultati ottenuti hanno consentito di trasferire il metodo nella lotta alla corruzione. Il metodo, nel frattempo, è divenuto un sistema globale, grazie alle connessioni digitali. La recensione, un tempo coadiuvante, ma non determinante, diviene il criterio assoluto di scelta. E nella recensione digitale uno vale uno. Non c’è il critico d’arte, l’esperto di cucina, il viaggiatore di professione: su tripadvisor, sei proprio tu a decretare la vita e la morte. In Cina ne hanno fatto un caposaldo del neo-confucianesimo: tutte le anime sono appese ad una app, che ti dice chi è buono e chi è cattivo.
E torniamo al nostro coronavirus: come in un libro di Bradbury, è virtuoso colui che spia il vicino e lo denunzia. Vinca chi è più paraculo: la visione pasoliniana portata all’estremo. Il sistema mediatico cassa di risonanza e tamburo.
Un popolo, quando perde la fiducia in sé stesso, è morto. E’ giunto il momento di rinegoziare il nostro patto sociale: maggiore responsabilità, minore coercizione. Siamo in grado di assumerci ogni rischio. Non siamo dei coglioni.
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