La notizia ha dell’incredibile: la Corte Suprema del Regno Unito ha sentenziato che le donne transgender (ovvero quelle che hanno a tutti gli effetti cambiato sesso biologicamente e innanzi allo Stato) non possono definirsi destinatarie delle tutele che la legge garantisce alle donne biologiche. Non dunque una definizione a priori di cosa sia una donna, bensì che i diritti alle donne riservati (es. quote rosa, partecipazione nei CDA, etc) non si debbano estendere a chi donna non lo è dalla nascita.
A ben vedere, questa pronuncia è la ciliegina su un dibattito che segue quello molto acceso avviato da Trump, ma anche dal caso della pugile algerina Iman Khelif e da tanti tanti altri, anche nostrani ovviamente e anche più di uso quotidiano (possono le donne transgender andare al bagno delle femmine?).
Che polverone e d’altronde non poteva essere differentemente dato che il cambio di sesso è di per sé una pratica straordinaria e incredibile che si è accresciuta tecnicamente con l’evoluzione e l’avvenirismo della medicina di genere (mentre le leggi, come l’opinione pubblica, hanno altri tempi, si sa).
Oggi giorno tra l’altro si parla della “fluidità”, del non essere “binari” e di tutto quello che ne conseguirà con l’identificazione sessuale, già fra minorenni e nei media a loro destinati ed è quindi probabile immaginare che i numeri in tal senso aumenteranno.
In Italia l’ultima volta che fu ripreso ufficialmente l’argomento fu in occasione del DDL Zan che si era permesso “solo” di ritenere che l’identificazione sessuale dovesse essere una scelta personale (e in quanto tale penalmente tutelabile) e già allora volarono botte da orbi (con il DDL poi cassato dal Parlamento), ma ora il Regno Unito ha fatto molto di più.
L’opinione pubblica si divise, le stesse donne si divisero fra chi riteneva giusto questo distinguo, tra donna biologica e donna transgender, e chi no. A sostegno delle prime il tema che le donne, già notoriamente afflitte dalla disparità di genere, non possano condividere quei pochi spazi a loro riservati.
A sostegno delle seconde che l’inclusione deve essere prevalente sulla perdita di posizioni di preferenza.
Ognuno ha le sue ragioni e come sempre, conosciute, non vi restano traccia di razzismi, discriminazioni o persecuzioni. Solo di interessi generali e particolari e di conseguenze, quelle sì, perché a conti fatti significa aver creato un precedente di donne di serie A e di serie B dove le seconde, seppur donne, hanno meno diritti.
E’ giusto tutto questo?
La più alta Corte del Regno Unito ha sentenziato.
Largo ai posteri comprendere se sarà stata quella giusta o sbagliata.
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