Da osservatore delle cose politiche italiane, non ho mai giudicato in questi anni in modo positivo Carlo Calenda. In diversi articoli l’ho definito come “un impolitico puro“ o “il Marchese del Grillo“, così come ce l’aveva reso il maestoso Alberto Sordi nell’omonima pellicola.
Chi è un impolitico puro? Uno incapace di portare a casa un compromesso buono e utile alle parti, che in politica e in democrazia è il pane quotidiano. L’incapacità di portare a casa un compromesso può derivare da diversi fattori e alcuni di questi sono dei comuni deficit personali. Quelli che ritengo riguardare Calenda è l’unione di tre sentimenti: il credersi in modo protervo l’unico competente, che in romano è detta “la sindrome der mejo fico der bigoncio“, l’accentrare di conseguenza tutto sulla propria figura, e il disprezzare il punto di vista altrui quando non collima col proprio.
Né possiamo dire che nel campo del business, da dove Calenda pure proviene, non esista il concetto di negoziato fra due parti contrapposte. Come ricorda un altro ex manager di successo prestato alla politica, Ivan Scalfarotto: “[nel business] la responsabilità di portare a casa un progetto sta in primo luogo sul capo: se un team fallisce a un passo dalla chiusura, il fallimento è in primo luogo del capo. Un dirigente di vertice chiude il deal, non fa saltare il tavolo.” Le rotture, in politica come nella vita o nel business, però non sono una cosa anormale. Possono capitare. Il punto è il come capitano. Se non si trova la quadra e si lascia il tavolo, ci si può sempre stringere la mano e dirsi in faccia che l’accordo non c’è, ma la stima perdura. Anche nell’auspicio di un futuro, migliore accordo.
Carlo Calenda, invece, si è specializzato in rotture che lasciano macerie radioattive e fumanti. Rotture in cui lui, Calenda, azzanna l’ex partner nel modo più distruttivo e feroce possibile, salvo poi dichiarare che lui non insulta nessuno. Su questo comportamento lascio a chi è più esperto di me trovare il movente psicologico. Le rotture di Calenda diventano dirupi personali e profondissimi. Calenda ha rotto in questo modo con Enrico Letta del PD, con Emma Bonino di +Europa, con Federico Pizzarotti della Lista Civica Nazionale, poi confluita in +Europa, e, da due giorni a questa parte, con Matteo Renzi di Italia Viva. Ossia, il politico di Roma Nord ha litigato personalmente con tutti i leader del centrosinistra italiano del 2022/23.
Un comportamento così distruttivo e autodistruttivo è prodromico, a mio avviso, di un’uscita di scena dalla politica nazionale per Carlo Calenda. Che si ritiri lui, o che venga disarcionato da leader di Azione da una corrente contraria, lo vedremo. Ma è chiaro che ora il problema è lui, e se Azione vorrà allearsi con altre forze alle prossime elezioni, dovrà per lo meno ridimensionare se non proprio cacciare il proprio attuale leader. Da ieri sappiamo però una cosa in più di Calenda. Grazie alla mania compulsiva con cui il leader di Azione usa i suoi social, è venuta fuori la verità di ciò che questo senatore ha sempre pensato dell’ex alleato Matteo Renzi. Calenda ha usato argomenti e toni travaglieschi, populisti e giustizialisti quando ha infatti scritto:
Calenda ha così rivelato ciò che davvero pensa di Matteo Renzi, e che ha in ogni evidenza sempre pensato, non solo da ieri, trattandosi di fatti arcinoti a tutti e alla luce del sole da anni. Quindi abbiamo capito che tutte le difese di Renzi e i complimenti che Calenda gli ha fatto in pubblico, su ogni media, dal 6 agosto 2022 a due giorni fa erano semplici e laide balle. Esprimevano la totale presa in giro degli iscritti di Azione e di Italia Viva e degli italiani, nel momento in cui Calenda chiedeva al popolo di sostenere il suo progetto di fare nientemeno un “partito unico” [sic! si dice “unitario”] con il “mostro” Renzi.
Lo stesso Renzi ha avuto gioco facile nel rispondere senza abbassarsi al livello dell’ex alleato, ricordandogli che se lui è un mostro lo è stato anche quando nominava Calenda sottosegretario o ministro o gli consentiva di presentare Azione alle ultime politiche. Emerge dunque dallo statista di Prati la sua strumentale doppiezza. Una doppiezza non certo togliattiana, ché almeno quella aveva un suo discutibile ma machiavellico fine. La falsità di questo uomo (im)politico è assai meglio descritta da Dostoevskij nel capolavoro I fratelli Karamazov, quando lo starec Zosima – il saggio anziano del monastero che funge da mentore e maestro di Alëša prima della sua morte nel Libro VI – dice a Fëdor Pavloviè – il ricco patriarca della dinastia Karamazov, padre di Alëša, Dmitri e Ivan e quasi certamente padre di Smerdyakov – le seguenti immarcescibili parole, che paiono scritte apposta dal grande maestro russo per lo statista di Prati:
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