Siamo allo scontro narrativo quello che il governo e i sindacati hanno costruito intorno al primo maggio, festività civile che finora era un coagulo di retorica un tantino noiosa fatta di slogan al profumo (si fa per dire) di naftalina. Come vuole la liturgia laica di questo giorno si fa festa ma non basta. Ci vogliono occhi nuovi per orizzonti inediti di modo che il primo maggio diventi un’occasione per una giornata “politica” di prima grandezza, un tempo per riflettere davvero oltre il rumore di slogan plastificati e spesso patetici. Di certo è che Giorgia Meloni ha osato fare senza dubbio una sorta di “furto di narrazione” che nemmeno altri governi di centrodestra si erano permessi di compiere sottraendo anche solo per mezza giornata (prima del concertone romano) una la bandiera del lavoro fondamentale per il mondo dei sindacati, il tema che fa di loro la controparte del potere. La novità sta tutta nell’aver ridato al tema non solo e ovvero una dialettica intensa e aspra tra governo e le opposizioni dei corpi intermedi (la Schlein ahinoi sta pensando ai colori dell’outfit) ma soprattutto nell’averci suggerito una cosa e un come cioè altre piste di riflessione sostanziali sul lavoro di oggi e di domani che devono partire dal principio di realtà per non evaporare come incenso di bassa qualità.
Siamo davanti a cambiamenti epocali, portati dai recenti shock globali e che impattano duramente sul lavoro nei suoi termini di “categoria” sociopolitica” declinato nella vita concreta dei cittadini. Le transizioni dovrebbero essere – per loro natura – “transeunti”, improvvise tempeste che lasciano il cielo sereno invece siamo alla perenne variabilità del sistema, ad una transitorietà permanente per dirla con un ossimoro.
Secondo il rapporto “The Future of Jobs” del World Economic Forum (WEF), la transizione verso una società sempre più digitale ed ecologica richiederà lavoratori e competenze diverse nei prossimi cinque anni. Il rapporto prevede una trasformazione radicale del mercato del lavoro, con il 23% dei posti di lavoro destinato a cambiare. Ciò significa che alcune figure professionali cresceranno di numero, mentre altre si ridurranno.
Più specificamente, saranno richieste nuove figure professionali per governare gli algoritmi e per sviluppare e implementare le tecnologie avanzate, con una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale, alla sicurezza informatica e ai big data.
Tuttavia, secondo il rapporto del WEF, solo la metà degli occupati ha accesso a strumenti per la riqualificazione e il deficit di “professionalizzazione” suggerisce il rischio tale per cui 6 lavoratori su 10 avranno bisogno di formazione nei prossimi cinque anni e in media ogni lavoratore dovrà aggiornare quasi la metà delle proprie competenze.
Inoltre, in Italia, ci sono ancora ritardi nel numero di laureati in materie scientifiche e le imprese sembrano meno interessate alle competenze tecniche rispetto ad altre qualità “soft”.
Per far fronte a questa trasformazione, è necessario investire in istruzione, formazione e riqualificazione, in modo da preparare i lavoratori alle nuove competenze richieste dal mercato del lavoro. In questo modo, l’Italia potrà sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla trasformazione digitale ed ecologica.
Scommetto che governo e sindacati non hanno idea di questi scenari accapigliati su questioni di contorno, intrappolati sul presente dei già garantiti.
Ovviamente spero di sbagliarmi.
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