La nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione del governo Meloni in “Ministero dell’Istruzione e del Merito” sotto il neo-ministro Giuseppe Valditara ha fatto subito discutere, sui social e non solo, dimostrando che la politica è anche capacità di comunicazione. Il primo obiettivo di Valditara è stato dunque già raggiunto: far parlare del nuovo nome che lui ha deciso per uno dei ministeri più importanti e difficili da governare, quello della scuola. Io, che parto un po’ prevenuto su questo governo, temo che Valditara possa fermarsi a cambiare il nome del ministero, senza introdurre alcuna meritocrazia. Ma andiamo oltre.
L’importanza dei nomi
Sull’importanza del nome moltissimi filosofi del linguaggio, da Benjamin a Wittgenstein, hanno scritto pagine celebri. Qui ricordo lo storico David Bidussa, che in un recente articolo in cui commemora la scomparsa di Zygmunt Bauman, scrive: “Il nome è importante, non solo per i significati che include, ma perché l’atto di denominare non è un dato tecnico, ma descrive un processo culturale e intellettuale di primaria importanza. È nel nome che la lingua manifesta il suo carattere ontologico.
Una frase poi di Walter Benjamin, presa da Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916), “La facoltà di nominare […] è quella condizione e quella possibilità che consente poi di dare un volto e, nel tempo, contenuto alle cose. Non consente solo di riconoscerle, ma di parlarne.”
I prof contrari al merito
Stando a un recente articolo de Il Fatto Quotidiano, la maggior parte dei docenti e dei presidi boccerebbe il nuovo nome dato al ministero.
Molti colleghi leggono “merito” e pensano sia il contrario di “inclusione“. Questo è un primo macro-errore logico, filosofico e politico, figlio di un pregiudizio ideologico contro qualunque governo di Destra, quale questo di Meloni senza dubbio è. Ma il contrario di “merito” è ovviamente “demerito”. Volere una scuola meritocratica non significa, dunque, programmare di respingere tutti coloro che non sono normodotati e hanno difficoltà o disturbi dell’apprendimento. Il merito, in effetti, conviene soprattutto ai poveri. Perché i soldi comprano tante cose, ma non l’impegno, la passione, la voglia di partecipare, lo studio, la capacità di articolare un pensiero o una critica.
Merito come valore borghese
Il merito è, storicamente, un valore borghese, che si afferma durante la Rivoluzione del 1789 contro l’aristocrazia. I nobili non avevano bisogno di coltivare meriti o talenti: avevano diritto a tutto per forza di sangue blu. Il ceto nascente, la borghesia, non era d’accordo. Così nacque il principio meritocratico. Che va sempre accompagnato dal fornire a tutti un uguale punto di partenza, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” come disse Luis Blanc e poi ripreso in modo famoso da Karl Marx.
Merito per noi docenti
Secondo punto, il merito nella Scuola deve anzitutto riguardare i presidi e noi docenti e, in seconda battuta, i nostri studenti ma al modo stabilito dal 2° comma dell’articolo 34 della Costituzione più bella del mondo, là dove dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”
In Italia, la professione dell’insegnante, anche a causa di uno stipendio fra i più bassi del mondo occidentale, è oggi composta sia da professionisti meravigliosi, che mettono nelle loro giornate lavorative tutta la passione e l’entusiasmo necessari e anche di più, sia da persone che sono arrivate all’insegnamento come ultima spiaggia.
Questi non amano affatto insegnare, gli studenti, l’incontro con le famiglie, dover preparare le lezioni o correggere i compiti in classe. Non amano la Scuola. E’ ovvio che queste persone non hanno mai nessuna intenzione di aggiornarsi o di formarsi o di percorrere l’extra miglio per migliorare le loro tecniche pedagogiche o didattiche. A volte, questi “colleghi” con le virgolette non sono nemmeno poi così preparati sui contenuti delle loro discipline; figurarsi se hanno studiato come veicolarle al meglio in classe o tramite Dad.
Uno scivolo necessario
Nei confronti di questi “colleghi” (che non sono tanti e nemmeno la maggioranza, ma una cospicua minoranza, diciamo spannometricamente di uno su tre) l’unica mossa politica giusta è quella suggerita dal progressista Walter Tocci nel suo bellissimo libro “La scuola, le api, le formiche. Come salvare l’istruzione dalle ossessioni normative” (Donzelli): uno scivolo per portare questi “prof” a far danni altrove, fuori dalle aule scolastiche.
Come si valuta il lavoro?
Dunque il merito deve riguardare anzitutto noi docenti e la domanda che mi viene spesso posta è: sì, ma chi decide come valutare i docenti migliori? Anzitutto diciamoci subito: se è possibile valutare il lavoro di uno studente (occhio: la prima regola di un bravo valutatore è che non si valuta mai LA PERSONA, ma IL SUO LAVORO), è possibile valutare il lavoro di un docente o di qualunque lavoratore. Merito è impegno, passione, serietà, capacità critica, partecipazione, studio. Ognuno inizia da partenze diverse (chi è introverso, chi è estroverso) e arriva a traguardi diversi, ma l’impegno di ciascuno è misurabile sempre.
Esiste poi una disciplina che risponde in modo completo a questa domanda centrale: si chiama docimologia. Qui, nello spazio di un blog, posso dire che un docente, in ogni caso, deve essere valutato da una pluralità di fonti differentemente ponderate. Una di queste deve sempre essere il giudizio che i suoi studenti danno del proprio prof, e deve valere almeno un 5% del totale e non più di un 10%, per non rischiare l’effetto compiacenza dei propri discenti.
Poi si può immaginare una valutazione anche dall’alto (la DS) così come dai propri pari (gli altri docenti, anche se qui si rischia il “cane non morde cane” o l’affossamento del “primo della classe”: tutti fenomeni noti, esistenti e che si possono tamponare).
Parametri anche semplici e oggettivi
Infine ci sono tanti parametri semplici e oggettivi: vieni a lavorare oppure no? Perché nella scuola esistono anche alcuni docenti — spero casi estremi, ma ho raccolto più di un racconto in questo senso — che ogni anno dichiarano tramite certificato medico farlocco di essere in malattia dal 15/9 al 23/12 per poi, ogni anno, rientrare a disposizione dal 24/12 al 6/1, e tornare malato dal 7/1 alle vacanze di Pasqua. Questa è una truffa ai danni dello Stato, dell’erario e dei colleghi che suppliscono a queste assenze truffaldine.
Se il Ministero non avesse oggi solo meno di 60 ispettori per più di 53.000 istituti, dovrebbe poter controllare uno a uno questi “docenti”, e provvedere alla radiazione loro e dei medici compiacenti che forniscono il falso certificato. Ecco, si potrebbe cominciare col verificare queste assenze croniche e continuate, salvaguardando i malati veri da quelli che truffano. Poi si possono aggiungere diversi altri parametri, non solo se vieni a lavorare o no, ma come lo fai: in dialetto? In italiano? Anche in altre lingue? Usando le tecnologie dell’istruzione? Aggiornandoti? E così via.
La Scuola deve poter offrire anche dei “No”
Ma anche il lavoro degli studenti va valutato in modo più rigoroso e deontologicamente corretto. Da alcuni anni la scuola pubblica italiana sostanzialmente non boccia nessuno. Eppure, l’istituzione è pensata per poter dire ogni tanto dei “no” che aiutano a maturare.
Ripetere un anno di scuola, se non ci si è impegnati, se non si è studiato abbastanza, è un favore che l’istituzione ti fa. Non un’umiliazione. Perché il fine della Scuola non è farti uscire dal suo percorso il più presto possibile a prescindere da cosa hai imparato. Il fine della Scuola è istruirti. Darti quegli strumenti culturali che ti consentano di decifrare meglio la realtà intorno a te, partendo magari dalla conoscenza dello stato dell’arte fino ai giorni nostri. Solo così si mettono i giovani nella condizione di spiccare il loro personale volo.
Nella scuola (e nelle famiglie) di oggi, questi concetti si ritengono “di destra” o “vecchi”. Ma intanto sono umanistici e universali e poi non tutto quel che viene dal passato è da buttare via. La scuola pubblica non deve rigettare nessuno, ma deve certamente proporre uno standard minimo — anche personalizzabile per le capacità di ciascuno, come afferma la scuola dell’inclusione. Purché si raggiunga uno standard minimo.
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