Vedo il profilo di questi due uomini in piedi, chini su una panchina piena di tante cose che maneggiano e spostano con molta attenzione da una busta all’altra.
La penombra non agevola la messa a fuoco e neanche aiutano i lampioni lungo il viale, ciechi da oltre una settimana: un guasto alla rete, dicono.
La curiosità di spiare di cosa si stiano occupando i tizi, prevale sulla paura di in-disporli, così – approfittando di una infinita fiutata dei cani sull’aiuola vicina – mi allungo col collo per superare con lo sguardo i loro corpi.
Vedo barattoli di pelati Cirio, pacchi di pasta Todis, bottiglie di passata, un pez-zo di grana padano confezionato, un paio tavolette di cioccolata, alcuni budini, svariate scatolette di tonno, delle confezioni di pancetta, formaggio spalmabile, due mele e molti cracker.
Mentre ancora mi impiccio, uno dei due si gira e io abbasso subito lo sguardo colpevole, andando oltre. Ma mi fermo un passo più in là, sempre indugiando con la scusa dei cani.
Li ascolto mentre tra loro parlano una lingua incerta: uno è italiano, accento ca-labrese, l’altro dell’Est Europa. Sembrano manichini, coperti, entrambi, da giac-coni troppo grandi che li fanno sparire. Si vede che sono affraternati da un pre-sente precario e nomade: un tempo scandito da pasti alla Caritas – la scritta, in terra di Siena bruciata, campeggia su una delle due borse capienti, arrotolata a un angolo della panchina – e dalla perenne ricerca di un posto dove riposare i corpi sempre in movimento.
Si scambiano questa spesa caritatevole a seconda dei bisogni (più che degli appe-titi, penso) e – suppongo – anche della necessità di incamerare alimenti un minimo bilanciati:
“Vuoi una pasta e tu me dai un formaggio?”.
“No, preferisco un’altra mela”.
“Va bene, facciamo a metà del tonno: ho anche carne in scatola”.
“No a me non gusta”. [Neanche a me, mai piaciuta la Simmenthal, dico ad alta voce soprappensiero]. Poi devo proprio andare e non sento più niente.
Penso, invece, mentre rientro a casa, dove sprofondo in una tristezza pungente eppure comoda – come può essere confortevole rintanarsi nel proprio cantuccio, con un dolorino allo stomaco per il quale tuttavia, presto, ci sarà un risarcimento in cibo, calore e futuro? – penso, dicevo, al conforto offerto dal cibo. Ma soprat-tutto indotto dal sapere che, tra alcune ore, si avrà qualcosa da mangiare che riempirà i vuoti e smorzerà i brividi di una giornata passata sempre fuori.
Ah quella calma, che a un certo punto permette di respirare piano, perché non c’è più fretta di cercare, non esiste premura se sappiamo che – comunque vada – un altro giorno l’abbiamo sfangata. È la differenza che può salvarci la vita, prima ancora di essere certi di averla salva per davvero.
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