«Non v’è pace nel cuore dell’uomo», ammoniva Salvatore Quasimodo, e tale monito continua a risuonare in un presente sempre più travagliato, segnato da conflitti e da un diffuso senso di smarrimento. Basti pensare all’Ucraina, dove la rigidità della guerra non sembra concedere alcuno spiraglio di soluzione; volgendo poi lo sguardo al Medio Oriente, ancora intrappolato in fratture secolari, si assiste a un perpetuarsi di rabbia e “crudeltà” (come la definisce Papa Francesco). E non vanno dimenticati i teatri di guerra meno raccontati, ma non per questo meno drammatici: dallo Yemen al Myanmar, fino al Sud Sudan, terre in cui il sangue di vittime innocenti continua a scorrere nel (quasi) silenzio dei media. Sono luoghi in cui guerra e miseria divorano intere generazioni, testimonianza di un mondo in cui, quasi pavidi, sembrano celarsi quegli “uomini di buona volontà” (bonae voluntatis) che pure avrebbero la capacità di governare in concordia, ma che paiono latitare. Un’assenza, questa, che ci ricorda quanto fragile sia la condizione umana. Tuttavia, non sono forse le ferite più profonde quelle che scorrono anche tra le pieghe del nostro quotidiano? Esiste, infatti, una notte intima, un’oscurità che avvolge le coscienze e alimenta paure, egoismi, solitudini. Le crisi globali – dalla pandemia alla deriva climatica, dal progressivo acuirsi delle disuguaglianze al disfacimento dei legami solidali – ci hanno lasciati nell’inerzia di un tempo sospeso: il Rapporto Censis 2024 la definisce «galleggiamento», ossia quella condizione in cui, pur riconoscendo la nostra vulnerabilità, ci scopriamo incapaci di immaginare una svolta o un riscatto, come se l’orizzonte fosse rimasto inesorabilmente statico.
Risuonano, allora, con tinte ancor più cupe le parole di Martin Heidegger: «Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà che diviene sempre più povera». E non si tratta soltanto di indigenza materiale, ma di un vuoto di senso, di una sfida spirituale che vede appannarsi i valori fondanti del vivere in comune. Eppure, non è forse proprio in questi frangenti che il desiderio di luce si fa più vivo e la speranza diviene l’unico appiglio a cui aggrapparsi? Speranza, dunque, come chiave del Giubileo che sopraggiunge dopo aver varcato la soglia del terzo millennio venticinque anni fa, nel passaggio del 2000, quando già avremmo dovuto fare i conti con la dura cervice della logica del mondo e invece ci ritroviamo ancora a leccarci le ferite inflitte dalla prepotenza dei forti sui deboli. Sperare, quindi, non è un ingenuo ottimismo, ma un atto di grande e ostinato coraggio. Riecheggia l’antica radice latina “spes”, la stessa evocata da Charles Péguy, secondo cui la speranza è la virtù più piccola, ma proprio per questo la più audace: non è forse lei, in fondo, a condurre per mano la Fede e la Carità? Perché, si domandava Péguy, se non ci fossero gli occhi incantati della speranza, come potrebbero le altre virtù camminare in un mondo che appare così cupo?
Su questo sfondo si colloca il Giubileo del 2025, che invita a riscoprire la speranza nella sua forza più autentica e rivoluzionaria: non uno stato d’animo vago, bensì un impegno concreto a trasformare il presente. Papa Francesco, rifacendosi alla grande tradizione cristiana, ricorda che Spes non confundit, la speranza cioè non delude, ed è proprio ciò che impedisce alla realtà di rassegnarsi alle proprie paure. Anche il Natale, con il simbolo della luce che nasce nel buio, suggerisce una svolta: come i pastori del Vangelo di Luca, i più umili, che lasciarono tutto per mettersi in cammino “senza indugio”, siamo chiamati a un rinnovamento radicale. Chi può dire che, nel cercare un segno, non finiremo per esserne trasformati noi stessi? E cosa significa davvero intonare un autentico «gloria in excelsis» se non ritrovare la dimensione comunitaria, la prossimità, il coraggio di un futuro condiviso? Proprio il pontefice insiste sulla speranza come energia che spinge a camminare, a non arretrare di fronte alle sfide e a non temere il deserto. Non è forse questa la medesima promessa del Natale? Una luce che non cancella di colpo le tenebre, ma che le trasfigura, offrendo a ognuno di noi la possibilità di diventare portatori di cambiamento.
Il Giubileo, dunque, rappresenta un’opportunità per riflettere sulla nostra responsabilità collettiva: accendere una luce nel buio equivale a scommettere sulla dignità umana, sulle relazioni autentiche, sulla costruzione di ponti là dove ancora si ergono barriere. Come sosteneva Kazoh Kitamori, l’amore è «dolore contro dolore», ovvero la fedeltà alla vita che si oppone al male non con la forza, ma con un’affezione capace di disarmare. In un mondo che appare rassegnato all’inerzia, il Giubileo diventa un appello a riscoprire la speranza come scelta quotidiana: un’azione costante di illuminazione non per celare le ombre, ma per attraversarle con la consapevolezza che ogni notte, per quanto lunga, può sfociare in un’alba radiosa.
Se saremo in grado di accogliere fino in fondo questa chiamata, allora il Natale non si ridurrà a una mera festa, né il Giubileo resterà un simbolo svuotato di significato. Diventeranno entrambi l’occasione in cui la speranza – quella speranza bambina di cui parlava Péguy, così fragile eppure tanto indispensabile – tornerà a ispirare i nostri passi verso il domani, con occhi allenati a vedere l’invisibile e un cuore finalmente disposto a credere nell’impossibile.
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