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Il fascismo come autoritarismo imperfetto nella collettanea Treccani curata da Pasquino

Insegnante, giornalista e scrittore
Il fascismo come autoritarismo imperfetto nella collettanea Treccani curata da Pasquino

Spesso le collettanee di accademici denunciano una carenza di qualità e calibro intellettuale dei vari autori o dei loro interventi. Nulla di tutto ciò accade con Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani, 2022, pp. 438, €27), operazione culturale da leccarsi le orecchie per i patiti del genere, davvero fra le più notevoli e incisive di questo anno del centenario della Marcia su Roma. Il coordinamento è a cura del politologo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, che firma qui solo l’introduzione e le conclusioni.

Pasquino è andato sul sicuro: ha chiesto a un nutrito gruppo di professori ordinari o emeriti, soprattutto politologi e storici (un binomio che noi scienziati politici abbiamo molto apprezzato), di partecipare a questo volume per riflettere sulle condizioni politiche, economiche, sociali e culturali che aprirono la strada all’affermazione del regime mussoliniano nel nostro Paese, anche al fine di inquadrare l’entità dell’influenza che il fascismo ha poi conservato nella nascita e nello sviluppo della Repubblica italiana. Quindi non solo interpretazioni storiche, ma gli effetti della Storia sul nostro oggi. I pregi di questa raccolta e della sua metodologia sono molteplici.

La prima cosa che salta all’occhio è il felice e proficuo sdoganamento e mescolanza di alcuni celeberrimi nomi di accademici che, fino a un passato poi non tanto remoto, furono ascritti a una identità culturale liberale o “di destra” e quindi ostracizzati dai loro “colleghi” con simpatie marxiste o comunque progressiste. Solo per fare i nomi più famosi: Marco Tarchi, professore ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze, uno dei massimi esperti del fascismo e del populismo, considerato almeno fino al 1994 l’ideologo della “Nuova Destra” e con un passato di militante di rilievo nazionale del MSI. Poi Alessandro Campi, professore di Scienza politica e Relazioni internazionali all’Università di Perugia e già Segretario generale e poi Direttore scientifico della fondazione FareFuturo. Sono gli unici due autori della collettanea che intervengono con ben due saggi ciascuno, entrambi di grande rilievo.

Ancora: Giuseppe Parlato, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi Internazionali di Roma (UniInt), già allievo del liberale Renzo De Felice, la massima autorità italiana sul fascismo. De Felice  venne stigmatizzato con sterili accuse di “filo-fascismo” per aver descritto – in tempi forse precoci per la pacificazione nazionale – gli “anni del consenso” mussoliniano, quando la vulgata anche accademica sul Ventennio preferiva di gran lunga parlare crocianamente di “calata degli Hyksos”, “parentesi”. Si voleva espungere il regime mussoliniano come una sorta di gramigna che aveva infestato la radice pura, naturalmente democratica e antifascista, dell’Italia e degli italiani.

E’ facile notare come anche questa gustosissima collettanea s’inserisce nel solco dell’interpretazione defeliciana, arricchendola però di una poliedriticità e ampiezza di interpretazioni che, se non rovinano una qual certa omogeneità d’impianto, di certo offrono spunti e riflessioni che possono portare a conclusioni anche molto differenti. Pasquino, in uno slancio di encomiabile pluralismo che — per onestà intellettuale — non mostra quando interviene nei talk politici televisivi con i suoi j’accuse contro il riformismo di Matteo Renzi, ha voluto condividere e promuovere le riflessioni dei tre illustri intellettuali di destra e presentarle assieme a quelle di altri colleghi non marxisti.

Utili dunque e importanti gli interventi del radical-socialista Piero Craveri, professore emerito di Storia contemporanea e presidente dell’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e preside della fondazione biblioteca Benedetto Croce. Importante il saggio della defeliciana Simona Colarizi, professoressa emerita di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma e una delle maggiori esperte di storia dei partiti politici italiani della prima Repubblica. Notevole anche l’apporto di altri grandissimi nomi più tipicamente progressisti, come Santo Peli, forse il maggior studioso di GAP e Resistenza italiana, autore fra l’altro di La Resistenza in Italia. Storia e critica (Einaudi, 2021) che è il miglior testo analitico su quel periodo della storia italiana. Non si può poi dimenticare la collaborazione di Paolo Pombeni, l’altro grande papa dell’ateneo felsineo per quanto riguarda la politologia, professore emerito di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna.

Per chi non si occupa di Storia, questi nomi sono tutti di enorme peso politico e culturale nei loro ambiti. Rappresentano la crema dell’accademia italiana in storia contemporanea e in scienza politica. Manca, ma non è una sorpresa per chi conosce le tristi diatribe fra accademici, quell’Emilio Gentile ritenuto da molti come il massimo esperto vivente di Fascismo. La sua assenza come dicevo non stupisce: Gentile è uno dei massimi padri della teoria che il fascismo fu una “via italiana al totalitarismo”, che è per l’appunto l’opposto dell’assunto da cui parte Pasquino, il quale sottolinea come la sola presenza della monarchia che insediò il fascismo e gli sopravvisse, “come a nessuna monarchia successe mai nei regimi totalitari” è sufficiente, anche senza citare la presenza della Chiesa cattolica, per parlare di un regime autoritario ma non totalitario.

La struttura della collettanea è suddivisa in sei parti, ognuna costituita di 4 saggi brevi, tranne la quarta sezione, intitolata “Il fascismo maturo” che consta solo di due interventi e la sesta, di tre contributi. Nella prima parte, “Le origini” (30-91), si collocano 4 saggi di storiografia in cui si analizza il peso culturale che gli studi sul fascismo hanno avuto in Europa e nel mondo. Qui l’intervento più importante è quello di Marco Tarchi che illustra l’ “Ideologia del fascismo” (pp. 51-68), tema assai delicato e super-discusso.

Tarchi, dopo aver brevemente illustrato l’ampiezza delle varie interpretazioni sul punto, parte dalla citazione di documenti di pugno di Mussolini stesso e del filosofo Giovanni Gentile, per concludere che “vi sono dunque validi motivi per ritenere che di un’ideologia del fascismo si possa legittimamente parlare” (55) e li ricorda nell'”avversione all’individualismo” che “porta a vedere nei tre filoni ideali che a esso in forme diverse si connettono — liberalismo, democrazia e socialismo — altrettanti nemici” (59). Tarchi ricorda dunque l’importanza del concetto di nazione (61) ma su tutto colloca “lo Stato” che considera come “l’elemento che della visione ideologica fascista costituisce il caposaldo” (62).

Nella seconda parte, “La conquista del potere” (93-169) si trovano 4 interventi di storia ed è questa la sezione più debole dell’opera. Il saggio di Marco Filoni, “Gentile, Croce e la disputa dei manifesti” (149-55) si limita a riprodurre i due celeberrimi manifesti di Gentile e Croce (156-67), aggiungendo all’inizio delle considerazioni che non aggiungono nulla di rilevante. Anche l’intervento di Filomena Fantarella, pomposamente intitolato “Le interpretazioni del fascismo” (137-48) pecca di ambizione, vastità dell’argomento e pochezza contenutistica, anche a mo’ di Bignami. Più interessanti sono i due pezzi d’apertura, a firma rispettivamente di Giuseppe Parlato “Il fascismo movimento” (95-112) e di Piero Craveri “Premesse e sviluppo della crisi dello Stato liberale” (113-136), dove il primo riprende una famosa definizione di Renzo De Felice del 1975 e la sviluppa, mentre il secondo è un gradevole riassunto a livello di manuale del liceo di come lo Stato liberale si suicidò nelle mani giovani e dinamiche del 39enne Mussolini.

La terza parte, “L’esercizio del potere” (170-247) è per converso la sezione più riuscita della collettanea. Qui i saggi sono di politologia, con una interessante apertura di Antonio Carioti “Il regime: il duce e i gerarchi” (171-90) che pescando nella microstoria ricostruisce anche a livello psicologico il rapporto fra gli elementi interni del regime, mettendo in risalto quel Mussolini dal “carattere solitario, diffidente, incorreggibile accentratore” che “non si preoccupa mai di far crescere intorno a sé una classe dirigente” (171).

Magistrale, al solito, l’intervento di Paolo Pombeni, “Il Partito nazionale fascista” che si sofferma sulla mediocre organizzazione interna della struttura, denunciando il partito come “un caso emblematico di stravolgimento dei fini iniziali” (191) considerando che Mussolini veniva dal “partito moderno per eccellenza”, quello socialista, e seppe fondare un “antipartito”. Il giudizio di Pombeni è netto: almeno dal 1939 in avanti, “il PNF rivelò sempre più l’inconsistenza della sua funzione e la miseria del suo burocratismo” con un “continuo alternarsi di segretari” che “non riuscì a rivitalizzare una formazione senza nerbo” (204-5).

La quarta parte, “Il fascismo maturo” (247-78), l’unica di due soli saggi, contiene un approfondimento su “Lo stato fascista” di Guido Melis, che accusa il fascismo di aver voluto “cambiare lo Stato senza una teoria dello Stato” (249) e mette in risalto come nell’atto costitutivo della Milizia del 1923 non venga fatto alcun riferimento allo “Stato” preferendogli più spesso il sinonimo “patria”, termine caro anche alla nostra premier Giorgia Meloni, e come questo termine “Stato” si fatichi a trovarlo anche all’interno della pubblicistica fascista dell’epoca. Melis poi si sofferma sullo “Stato ‘corporativo’ e le sue contraddizioni”, regalando alla dicitura delle pesanti virgolette e sostenendo che in definitiva lo Stato fascista fu “intimamente contraddittorio” (263). Annalisa Capristo affronta poi, in un intervento assai breve “Le leggi antiebraiche” (267-74) ripercorrendo l’intera legislazione in modo puntuale ma non analitico.

La quinta parte, “La perdita del potere” (278-371) offre 4 saggi storici in cui si alternano le vicende dei fascisti, nei saggi di Marco Palla “Il Gran Consiglio del 25 luglio 1943” che pesca molto dalla monografia di De Felice, e dei giornalisti Mario Avagliano e Marco Palmieri “La Repubblica sociale italiana” (339-54), alle vicende degli antifascisti nei due notevoli interventi di Simona Colarizi “Storia dell’antifascismo” (297-327) e di Santo Peli “La Resistenza” (355-371).

Nella sesta e ultima parte, “Il fascismo dopo il fascismo” (372-434) troviamo un saggio di Paolo Bagnoli, “Il fascismo nella storia d’Italia” (373-91) che collega il Ventennio con i prodromi dell’età tardo-liberale, un  notevolissimo contributo di Marco Tarchi “Neofascismo” (393-409) che propone una formidabile e rara storia dei movimenti neofascisti degli anni della Prima Repubblica, con un’analisi potremmo dire dall’interno delle correnti del MSI e poi dei movimenti giovanili degli anni Settanta.

Infine le brevi conclusioni di Pasquino “Autoritarismi e populismi” (411-34) che propone una classificazione dei regimi non democratici secondo una più accurata articolazione: “regimi classicamente autoritari”, dove naturalmente colloca l’esperienza fascista, “teocrazie” come l’Iran di Khomeini, i “Sultanismi” dove si riprendono le definizioni di Chehabi e Linz (1998), i “Totalitarismi”, dal nazismo di Hitler alla Cina di Mao, passando per l’URSS di Stalin, e includendo la Cambogia dei Khmer rossi di Pol Pot, e infine i “Populismi”, che secondo Norris e Inglehart (2019) sono il prodotto di fattori culturali più che economici.