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Il green non green della Cina

Il riformismo demolibertario
Il green non green della Cina

Dando uno sguardo globale alle emissioni di CO2 è evidente il peso schiacciante della Cina.

Solo a Guangzhou, città con più di 18 milioni di abitanti al sud della Cina, sono attivi tanti produttori di pale eoliche, pannelli solari, pompe di calore, auto elettriche con export mondiali da capogiro. L’economia di quel polo industriale cinese, però, è caratterizzata ancora da una enorme presenza di carbone, e nuove centrali aprono ogni anno. Il paradosso della pseudo-transizione energetica cinese arriva a pervertire gli stessi obiettivi globali di ogni programma di transizione green, perché la Cina è sì leader nell’industria delle tecnologie pulite ma al contempo è leader di emissioni di CO2 con l’apertura di due centrali a carbone su tre nel 2023.

Di recente si è tenuto a Pechino il Forum sulla Cooperazione tra la Cina e i Paesi arabi, dove Xi Jinping ha evidenziato l’esigenza d’implementare i rapporti arabo-cinesi proprio in campo energetico. Pechino dipende in modo assolutamente rilevante dagli altri Paesi nelle importazioni di greggio, soprattutto negli ultimi due decenni, mentre gli USA diminuiscono di gran lunga i barili di importazioni nette al giorno.

Siccome la Cina necessiterebbe del petrolio mediorientale in quantità sempre crescenti, è giunto il tempo di avviare una nuova politica euro-atlantica, con l’Italia pioniera e proponitrice, patria italeuropea: non perdiamo l’occasione al riguardo.

In questa nuova politica potremmo trovare i modi per imporre alla Cina – prima di tutti – una netta diminuzione delle emissioni di CO2 unitamente al rispetto dei diritti umani, civili e sociali dei lavoratori tutti.

D’altronde l’Italia può insegnare, prima di tutto a se stessa, e all’Unione europea intera il principio secondo cui l’Europa deve essere democratica e fondata sul lavoro. L’Unione europea non si farà sfuggire queste piste evolutive, anzitutto perché esse risultano oggettivamente urgenti.