Sono appena rientrato a casa, a Oxford, dopo una lunga estate trascorsa in Italia. Per la prima volta, sono tornato in automobile per evitare aerei ed aeroporti. Partendo da Roma ho percorso 2100 km con sosta a Como, Treviri e Lussemburgo. Ho attraversato Italia, Svizzera, Francia, Lussemburgo, Germania senza dovermi mai fermare e senza dover mai mostrare il mio passaporto. Con l’eccezione del confine svizzero, negli altri casi non ho neanche intravisto i vecchi confini, le barriere, i posti di controllo, le bandiere, o le vecchie dogane abbandonate. Nulla, al massimo un cartello stradale.
Attraversando l’Europa in autostrada o per le strade minori ti viene anche il dubbio che i confini doganali siano mai esistiti davvero. Sembra un mondo così distante, tecnicamente impossibile da ripristinare, soprattutto per le nazioni dell’Europa centrale dove ogni giorno milioni di lavoratori transfrontalieri, viaggiatori e autotrasportatori attraversano confini di Stato che ormai esistono solo sulle carte geografiche e sulle mappe della straordinaria diversità linguistica, culturale ed enogastronomica del continente europeo.
Eppure, un confine esiste ancora, e si appresta a divenire ancora più rigido e opprimente al termine del periodo di transizione che scade il 31 dicembre. È il confine che ho attraversato a Calais all’imbarco del treno Eurotunnel. Ho mostrato brevemente il passaporto alla barriera francese e poi ho subito un controllo minuzioso al posto di polizia britannico dove due poliziotti mi hanno sottoposto a un colloquio abbastanza fastidioso (Da dove vieni? Cosa sei andato a fare in Italia? Dove vai? Cosa fai a Oxford? Di chi è la macchina? Da quanto la possiedi?). I casi sospetti vengono indirizzati al controllo successivo dove l’autoveicolo viene ispezionato da cima a fondo da altri tre poliziotti. Un controllo davvero d’altri tempi e nonostante il mio passaporto britannico.
Come se non bastasse, la Gran Bretagna probabilmente uscirà dal mercato unico e dall’unione doganale. Se così fosse, i posti di frontiera come Calais, Dover, London Gateway, Southampton si trasformeranno in un incubo burocratico per chiunque trasporti merci. Un incubo insostenibile non solo per le industrie britanniche che lavorano in modalità just in time con le filiere continentali di componentistica (automotive, aeronautica, difesa, farmaceutica…), ma anche per la grande distribuzione alimentare che dipende per il 50% dall’estero (di cui 30% UE).
Il mio viaggio in automobile mi ha insegnato molto sulla natura del lungo processo di integrazione europea. È stato un progetto visionario di natura politica e culturale, certamente. Ma è anche stato una necessità imprescindibile di natura economica e tecnica. Più che il Manifesto di Ventotene, a rendere indispensabile l’Unione Europea furono le esigenze tecniche e industriali per le quali vennero instituite la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) nel 1951 ed EURATOM (Comunità Europea dell’Energia Atomica) nel 1957. Quello che oggi rende irrevocabile il progetto europeo non sono i valori condivisi dai ragazzi della generazione Erasmus (ancora una sparuta minoranza purtroppo) ma l’integrazione delle manifatture europee, la collaborazione tra centri di ricerca, il commercio di beni e servizi, il sistema di pagamenti e regolamento, l’efficienza di standard tecnologici condivisi, l’ambizione di uniformare verso l’alto i diritti e i sistemi giuridici, la necessità di affrontare insieme le minacce esterne.
Negli ultimi decenni, milioni e milioni di cittadini britannici hanno visitato l’Europa in aereo. Se avessero viaggiato in automobile, almeno una volta, forse avrebbero saputo apprezzare di più il ruolo delle istituzioni europee e la bellezza di un continente senza frontiere. Forse avrebbero potuto comprendere la natura antistorica e tecnicamente irrealizzabile (o costosissima) di Brexit.
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