Molto si è detto e scritto sull’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, ma una cosa è oggettiva: si tratta di un grande successo culturale (tutti ne parlano, chi bene, chi male) e di un forte successo cinematografico, specie se si considera il piano nazionale e soprattutto tenendo conto che è un film d’autore. Come ha dichiarato pochi giorni fa Domenico Dinoia, presidente della Federazione italiana cinema d’essai, “Incassare quasi 3 milioni di euro di questi tempi, con circa 500 copie, per un film d’autore non è certo impresa da poco, senza contare che il film di Moretti potrà beneficiare a breve della presentazione al Festival di Cannes, dove ci auguriamo sarà tra i titoli più apprezzati”.
Partendo da questo dato oggettivo, vediamo cosa si possa dire che non è stato già detto in recensioni precedenti. E’ senza dubbio un film originale che riesce a interpretare la metacinematografia (quando il cinema rappresenta il cinema, sulla scia di quello che, a teatro, fu la grande invenzione di Pirandello, e che al cinema è stato fatto in modo magistrale in 8½, di Fellini) in un modo interessante e non banale. Ho onestamente perso il conto di quanti film nel film siano racchiusi in questa pellicola. Tre, forse quattro, ma il meccanismo che interessa è quello delle scatole cinesi, quindi è sempre possibile scovare una nuova, minuscola scatola quando si pensava d’esser arrivati alla fine.
In questo senso, Il sol dell’avvenire è a tratti un film didattico-pedagogico, quasi che Moretti abbia voluto regalare uno spezzone non piccolo di questo suo lavoro a insegnare al suo pubblico l’abc del linguaggio filmico, del significato semiologico di una scena, della sua fotografia, della regia. Di quanto l’estetica sia anche etica, seguendo l’insegnamento di Walter Benjamin. L’ovvio riferimento è al momento in cui l’attore protagonista, il regista Giovanni – l’alter ego di Nanni, che lascia il suo consueto pseudonimo di Michele Apicella per chiamarlo proprio col suo stesso nome di battesimo – interviene (fregandosene del “si gira!”) sul set di un suo “collega” conoscente per interrompere il ciak e spiegare, al troppo giovane ed esuberante regista, cosa significhi inquadrare una scena di violenza in un certo modo, e come si possa usare la violenza in una pellicola per condannarla o, al contrario, per esaltarla. Ma potremmo discettare dell’importanza della colonna sonora, di quanto non sia vero che “sono solo parole”, come canta a squarciagola l’intera troupe nella prima parte, concetto che rimanda a quell’urlo “Le parole sono importanti!” di Palombella Rossa, sottolineato dal regista Giovanni che chiama lo “stop!” quando la sua attrice si azzarda a improvvisare dal copione “se cambi una parola, cambia tutto”, ammonisce Giovanni sornione e trasmettendo lampi di disprezzo.
E’ quindi uno dei film più morettiani degli ultimi tempi, quasi un ritorno a certe atmosfere da Io sono un autarchico o Ecce bombo, magari con una spruzzata del docu-film La Cosa, che abbiamo visto in diciotto, ma meritava. Direi anche una puntina dell’Ettore Scola minore di Mario, Maria, Mario girato in quella che, all’epoca, era la mia sezione dei Giovani Progressisti di Piazza Verbano in Roma.
La firma del regista romano torna qui a essere nitida: un’introspezione al limite della psicopatologia, un monologo interiore che si nutre di stream of consciousness, che riprende e interpreta, forse con meno ironia ma maggiore sarcasmo romanesco il Woody Allen delle origini, di cui prende in prestito anche la figura di uno psicoterapeuta macchiettistico, al modo di Allen ma assai meno mordace del Ricky Gervais di After Life, ennesimo capolavoro in salsa Little Britain, che mi auguro Moretti conosca e apprezzi, nonostante il peccato originale della produzione da parte di quella multinazionale “presente in 190 paesi”.
***SPOILER*** Molti dunque i filoni narrativi: dalla centralità dell’amore in tutte le sue salse, alla soddisfazione di sé. Dal senso di una scena, alla funzione culturale del cinema e all’inverecondo ambiente dei produttori cinematografici. Dal racconto distopico politico sul PCI che avrebbe potuto/dovuto essere ma non fu in quel tragico 1956 dei carroarmati sovietici che spappolavano – col plauso del peggior Togliatti – sotto i loro cingolati i corpi e i sogni di libertà dei “compagni” ungheresi, al confronto fra generazioni. Dal coraggio di cambiare, anche il finale di un film, al coraggio di ridere, anche di sé.
Ma al di là del discorso politico-utopistico (i protagonisti del metafilm, Silvio Orlando e Barbora Bobulova, nei panni di Ennio e Vera, sono una coppia di fatto all’interno di una sezione del PCI del quartiere di Roma del Quarticciolo, che invita il circo ungherese Budavari nel quartiere proprio pochi giorni prima dell’invasione di Budapest, con Vera che aderisce subito alla protesta ungherese ed Ennio che attende che “il partito prenda posizione”), si può dire che Il sol dell’avvenire sia soprattutto un film d’amore, e non solo verso Roma e il quartiere Prati-Mazzini.
Lo dico guardando alla coppia etero protagonista, che sta insieme da “quarant’anni” al modo mortificante descritto dalla più emblematica delle battute di questa pellicola, messa in bocca a una sempre credibile Marghrita Buy nel ruolo di Paola, la moglie di Giovanni, e di se stessa: “noi non stiamo insieme perché hai bisogno di me, stiamo insieme perché io ti servo”. C’è poi un trascurabile cameo di una giovane coppia gay all’interno della sezione comunista, con tanto di ramanzina da parte del segretario riguardo al dover apparire, in quanto comunisti, come inappuntabili all’esterno. Viene da pensare all’espulsione di Pasolini dal PCI nel 1949 proprio in quanto omosessuale e pederasta. L’elemento commedia è invece affidato all’amore gerontofilo di Emma, la figlia di Giovanni e Paola, che s’innamora di un dignitario dell’ambasciata di Polonia, peccato che vada per gli 85 anni.
Certo, l’utopia politica entra nel Sol dell’avvenire da porte e finestre, peccato che il film sia una monade sprovvista di porte e finestre dove, tuttavia, tutto è politica, a cominciare dal privato. Ecco quindi un campo di papaveri rossi di citazioni politiche, delle quali ricorderemo qui solo il faccione dell’amato Trotzky che campeggia nella scena finale, insieme a tantissimi potenziali “pasticceri” che marciano all’omba del Colosseo nella scena finale. Molte poi, anche le citazioni esplicite e implicite dei grandi maestri, da Fellini a Kieslowski, con tanto di spezzoni di grandi classici proiettati in modo didascalico ed etichettati come miti con tanto di cornici in radica e riti propiziatori.
La carrellata finale dove appaiono molti degli attori della filmografia morettiana potrebbe far dire ai critici più sprovveduti che questo è il suo film-testamento, il suo addio al cinema d’oggi fatto pensando al pubblico e a soddisfare i parametri della Sempre-Sia-Odiata-Netflix. Non credo proprio, invece, che sarà il suo ultimo film, ma è cristallina la dichiarazione di disagio e di distopia che Moretti vive in queste “magnifiche sorti e progressive” del cinema italiano, del Paese, della politica della Sinistra e dei rapporti fra le persone, così ben inquadrate dalla scritta sarcastica che precede il rullo dei credits: “Grazie all’abbandono della linea filosovietica da parte del PCI, in Italia si è realizzata l’utopia comunista tanto cara a Marx ed Engels”.
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