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La città sommersa di Baia e quelle origini della società moderna

Avvocato e Presidente "Consiglio per la Parità di Genere"
La città sommersa di Baia e quelle origini della società moderna

Calma, rallenta il respiro che raschia nel tubo salato che stringo in bocca. Il mare non è limpido oggi ma sott’acqua gli occhi si devono comunque adattare. La luce del sole lo trapassa come lance e va a incagliarsi sul fondale a quattro cinque metri da me che galleggio come una boa. C’è qualcosa di chiaro tra la sabbia nera che neppure i tanti pesciolini riescono a confondere. Fisso con attenzione “è’ un pavimento” un mosaico per l’esattezza, qui, in mezzo al mare, a più di cinquecento metri dalla spiaggia. E non solo uno, ma due, tre, quattro e dai colori cangianti, decori, disegni di tempi perduti.

Mi riempio i polmoni d’aria e con una mezza capriola scendo, le mani tese vibrano del bisogno di toccare questa meraviglia inattesa, una traccia del passato così prepotente che pretende un’esplorazione da vicino. In fondo tutto tace, il mare ha suoni sordi, piccoli gorgoglii in un silenzio surreale. Sott’acqua penso solo che non respiro. Fuori dall’acqua a tutto il resto ma in fondo al mare i pensieri si riducono all’essenza.  E poi fa freddo e poi caldo e di nuovo freddo, il sole non mi scalda abbastanza e dalla sabbia escono bolle che sembrano olio. Sono in un mondo parallelo di cui evidentemente non conosco le regole.

Riprendo il respiro e torno ad esplorarlo, l’occhio ormai si è abituato, le orecchie compensate fanno meno male e pure il cervello ha compreso come rallentare i battiti per lasciarmi sott’acqua il più possibile.  Poco distante dal grande mosaico, verso la base rocciosa della scogliera, intravvedo una corona bianca. E’ lì, fissata sul capo di una donna di marmo che sorregge in una posa eterna quello che pare un bambino. Dietro a lei un’altra statua con una conca e poi ancora un’altra. Sei in tutto sono questi abitanti immobili e silenti del mare, perenni vigili il cui sacrificio è decifrato dalle loro forme, marmoree ed immortali.

Quella che sto visitando è una vera e propria città, una città sommersa da un mare blu scuro e siamo davanti al Castello Aragonese di Baia, a pochi chilometri da Napoli, da Ischia, da Nisida che, oggi museo, custodisce i tesori riemersi (di cui molti originali di repliche lasciati nei siti) ma anche la storia dei paesi che lì si affacciano, Pozzuoli e i Campi Flegrei. Il Castello restituisce voce alle statue, ai pavimenti distesi in fondo al mare ma anche ai tanti oggetti rinvenuti narrando di una terra fertile e pericolosa adagiata su uno delle più grandi aree vulcaniche, la Caldera, ignota ai più sol perche’ invisibile: mentre i più famosi vulcani spaventano alti e minacciosi, questa e’ nascosta sotto la terra calpestata. Ingannatrice di una calma apparente che, nell’ultimo ventennio, è interrotta da frequenti scosse di terremoto.

Anche se la lunga storia racconta gravi episodi vulcanici, a cui poi si riconduce anche lo sprofondamento appunto della città sommersa, in queste terre Greci, Sunniti, Aragonesi e Romani combatterono per viverci bramandole per strategia logistica, rigogliosità e bellezza. Tra i tanti reperti di epoca romana rinvenuti nella vicina Pozzuoli, spicca una grande lapide, bianca solo perche’ probabilmente slavata dal tempo, dove i defunti, marito e moglie, erano fedelmente scolpiti in una vicinanza complice di una vita passata insieme. Lei grande quanto lui sorretta dalla sua mano forte: il segno di una terra fiorente non solo per commerci ma anche per la condizione dei suoi abitanti. Comprese le donne, matrone insostituibili di famiglie spesso benestanti e numerose. Un passato importante da non dimenticare e da conoscere in cui affondano lontane, e a Baia non soltanto in senso figurato, le radici della società moderna.

(Un grazie speciale alle guide subacquee e archeologhe, Guglielmo e Alessandra Fragale, a tutto lo staff e alla cura e disponibilità dell’intero Ente Parco dei Campi Flegrei).

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