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La “Fame d’aria” di Mencarelli: nuova apnea nella malattia senza speranza

Insegnante, giornalista e scrittore
La “Fame d’aria” di Mencarelli: nuova apnea nella malattia senza speranza

“I genitori dei figli sani non sanno niente”. La quarta prova narrativa di Daniele Mencarelli, già autore pluri-premiato dei romanzi La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare (tutti editi in modo assai lungimirante da Mondadori) certifica, se ancora ce ne fosse bisogno, che sulle colline di Ariccia (Roma) vive uno degli scrittori più interessanti, dolenti e notevoli di questo complesso inizio di XXI secolo.

Mencarelli, anche in questo quarto romanzo, Fame d’aria (Mondadori, 2023, 170pp., €19) decide di affondare il suo bisturi poetico nelle tenere carni della malattia, del disagio, completando (?) una quadrilogia che lo avvicina a firme oggi giustamente incluse nelle antologie delle scuole superiori, dal Giuseppe Berto de Il male oscuro al Carlo Emilio Gadda de La cognizione del dolore.

I meandri della psiche umana sono sbattuti dalla penna di Mencarelli su una pietra al sole come una fetta di carne staccata dall’osso a colpi di mannaia. Ne La casa degli sguardi, il romanzo d’esordio, ci aveva accompagnato dentro alle tristezze mute, dai colori dell’arcobaleno, di un ospedale pedriatico di Roma. Con Tutto chiede salvezza quel viaggio è proseguito nelle routine del dolore dei giorni eterni e sempre uguali di un TSO, un trattamento sanitario obbligatorio, così come visti da un pischello tossicodipendente di Roma Sud. Con Sempre tornare Mencarelli ci ha proposto di continuare a piedi l’itinerario della sofferenza, donandoci un romanzo di formazione picaresco che sbocca in una solitudine, un disagio esistenziale e giovanile come non ne leggevamo da tempo. “Se non ci fosse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i propri limiti, non conoscerebbe se stesso“, scriveva Tolstoj in Guerra e pace. Ed è questa la filosofia del dolore di Mencarelli: scrivere per coloro che non possono farlo, ma soffrono.

Fame d’aria è un romanzo utile e necessario. Se volete avere una vaga idea di cosa significhi essere il padre di un figlio con un forte handicap psico-motorio, ecco il vostro romanzo ideale.

E’ la storia di Pietro e Jacopo che incontrano un villaggio molisano sulla loro strada e, obtorto collo, entrano in contatto con i pochi personaggi di quell’incrocio di case. In mezzo a bugie, invidie, sentimenti confusi, e a volte vergognosi, di vario genere. La storia si regge su un protagonista, Pietro Borzacchi, e un deuter-agonista, suo figlio Jacopo, che comunica col resto del mondo come potrebbe fare un cane: mugugna, sbava, muove la testa a scatti, rotea gli occhi: “Jacopo è affetto da autismo a basso profilo di funzionamento: ‘Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso’.” (p. 27).

I due sono diretti in Puglia in una vecchia Golf con “ducentoquarantamila chilometri” a cui parte la frizione in mezzo a una superstrada di campagna, scelta perché senza pedaggio. Subentra un obbligatorio confronto con l’umanità di Sant’Anna del Sannio, un villaggio del Sud Italia, ai lati di un itinerario ormai poco battuto da quando esiste l’autostrada. Nel paesino, l’arrivo dei due forestieri rivitalizza tutto e tutti e suscita curiosità, pietà, compassione, paura. Tutto ciò che Pietro ha sempre cercato di evitare, con cura ossessiva. Nasce allora il tentativo di non scoprirsi, di omettere, di modificare, di mettere in scena una rappresentazione meno peggio della realtà. Nasce un incontro con una cameriera che si rivelerà essere altro, e forse attratta a Pietro non da lui, ma dal figlio. Nascono sentimenti bui, parole di ferro e sangue: “Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata,un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria.

Non è tanto la povertà materiale di Pietro il focus del romanzo: una povertà che di continuo lo affoga nelle difficoltà quotidiane di dover provvedere – con un solo stipendio – in tutto e per tutto a un figlio adulto ma per sempre bambino. E’ la stanchezza. Il disamore che confina con l’odio:Dal giacimento di pietra preziosa è stato strappato tutto. Negli altri umani, fortunati, la vena da cui estrarre si rigenera, anche di fronte al dolore e alla malattia, e anche in Pietro è stato così per giorni, anni. Poi il tesoro si è prosciugato. Sino a quello che rimane ora. Come un cratere. Vuoto.” (32). E’ il detestare la propria vita, così facile da commiserare. E’ la voglia di farla finita, che però si spacca contro i versi del poeta americano Robert Frost: “In three words, I can sum up everything I’ve learned about life. It goes on.