Mi è capitata un’insegnante iraniana con cui faccio conversazione in inglese una volta a settimana. Si chiama Ladan e ha al massimo 35 anni. È una tipa tosta, sorridente, che conosce pochissimo italiano e questo all’inizio mi ha mandata letteralmente nel panico. Quando “non trovo le parole”, Ladan non muove un dito per venire in mio soccorso, costringendomi a cercare un’alternativa più basic e meno arzigogolata per dire la stessa cosa. Che poi è il segreto per qualsiasi disinibizione linguistica. Dicevo di Ladan. Lei mi piace molto: su questo sentimento di benevolenza pesa anche la curiosità di avere un contatto con una donna che sarebbe potuta essere, proprio in queste ore, protagonista delle potenti proteste di giovani – soprattutto donne – che animano le strade iraniane, in molti casi al prezzo più alto.
Durante l’ultima lezione, si discuteva di donne e di uomini, e delle relative abilità anche in fatto di “costruzione sociale”. Ne ho approfittato per rivolgerle le classiche domande sulla società iraniana e sul ruolo delle donne, al che, Ladan ha iniziato a parlare come se non avesse più davanti una “semianalfabeta linguistica” ma una persona che la poteva comprendere completamente. Mi ha molto stupita ma anche messo un po’ di ansia: parlava velocemente ma in modo molto potente, confidando nella mia intuizione più che nella comprensione della lingua. Così è andata: non ho capito tutto ma unendo i puntini che vedevo nel suo discorso ho colto la sua “visione”, provandone anche un po’ di imbarazzo.
Ladan – giovane donna iraniana andata via dal proprio Paese per crescere e formarsi liberamente in America – parla degli uomini come di persone ininfluenti all’interno del primo nucleo sociale per definizione, la famiglia: è in particolare, sostanzialmente secondari rispetto alla “giusta” – e lei per giusta intendeva “open minded” – educazione dei figli. “Noi donne possiamo tutto” diceva lei, “siamo potenti, forti: la visione del mondo che i giovani avranno da adulti dipende da noi e non dagli uomini”. “Ma Ladan”, ho opposto io con il mio inglese salentino reso ancora più incerto dal tema della discussione che ci stava portando lontane, “ma a livello politico e pubblico?”, facendo intendere con il mio tono di voce “in famiglia siamo tutte brave (diciamo), ma poi se non mettiamo mano alle politiche, quanto possiamo incidere noi donne?”.
“Ma è la stessa cosa” ha ribattuto lei come se fosse un’evidenza empirica: “Questi uomini che sono in politica hanno avuto sì o no delle madri? E hanno sì o no delle mogli, delle compagne? Il nostro compito è fondamentale perché è sia generativo – in senso biologico – che rigenerativo nel senso di attivare processi che “rigenerano”, danno nuova vita a tutto quello che toccano”. Poi ha aggiunto: “Io sono andata via presto dal mio Paese e sono cresciuta in America dove ho studiato Scienze naturali. Ma l’impronta, profondamente matriarcale, della mia famiglia ha deciso chi sarei diventata oggi. Niente altro ha inciso su di me”.
Sentivo l’intensità delle sue parole, le potevo toccare tanto erano vissute e vere. Non mi interessava più esprimere le tante obiezioni che razionalmente – mentre parlava – mi venivano in mente: non era un dibattito teorico se non all’inizio, per come era nato. Stavamo parlando della sua vita, e di quello che lei era riuscita a diventare e a costruire nonostante la maledetta (parola mia) Repubblica islamica e gli hezbollah che la governavano. Il senso del suo discorso era questo in definitiva: se noi donne riuscissimo a esercitare fino in fondo il potere che già abbiamo, non in virtù di un’investitura (meccanismo di trasmissione del potere tipicamente “maschile”), se facessimo la nostra parte fino in fondo, a partire dalle nostre famiglie per proseguire sui luoghi di lavoro e poi nell’amministrazione pubblica, allora potremo “conquistare il mondo”.
Ammetto di aver trovato questo ragionamento di Ladan assai sbilanciato e responsabilizzante nei confronti delle donne: se una trasformazione sociale dipende dall’intelligenza e dalla volontà delle donne di esserne il motore, cosa succede quando non ci sono le condizioni esterne per farlo? Che ce ne assumiamo il relativo fallimento, pur avendo noi le risorse e le competenze (sia emotive che intellettuali e pratiche) per portarla avanti? Per Ladan sì, ma questo non toglie nulla al nostro potere che non si misura oggi e immediatamente ma è una costruzione lunga e piena di sfide. Insomma, mi è parso incredibile che questa donna che oggi vive in Italia, che potendo scegliere è cresciuta negli Usa sacrificando anche una parte della propria vita, scelga di aderire a questa visione del mondo in cui lei resta il soggetto di tutto quello che ha scelto e sceglierà per se stessa e la propria famiglia . Mentre sarebbe stato assai più facile e anche comprensibile, trovare rifugio in una mentalità vittimizzante, di scelte necessitate e di libertà compromessa.
Mi viene naturale ripensare la mia stessa idea di libertà: la mia coincide con me, con la mia concreta capacità di esercitarla. Quella di Ladan no: per lei il suo perimetro è allargabile all’infinito, fino al punto in cui è in grado di pensarla. In questo senso la sua libertà è più una prospettiva che va oltre la sua stessa vita, è inesauribile e assomiglia a un’onda lunga intere generazioni. Così sa anche un po’ di speranza.
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