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La lobby, le imprese e il ricatto degli investimenti

La lobby, le imprese e il ricatto degli investimenti

Una delle sfide più ostiche che mi trovo ad affrontare nel mio lavoro di lobbista è quella contro la pigrizia intellettuale, che porta le imprese in crisi a sbandierare il blocco degli investimenti esteri nel nostro Paese, se il legislatore non si affretta a risolvere un determinato problema regolatorio.

Purtroppo la realtà è molto più complessa di così.

Immaginate un lobbista al quale un’azienda ha chiesto di costruire una proposta da sottoporre al legislatore o ad altri decisori pubblici. L’individuazione del nesso tra distorsione delle dinamiche di mercato e inadeguatezza della cornice normativa è il primo passo, la definizione della proposta di adeguamento della normativa è quello successivo, ma rimane essenziale costruire argomenti solidi e convincenti a sostegno di quella proposta. Mi spiego meglio: il lobbista deve essere in grado di dimostrare alle Istituzioni l’importanza di regolare meglio, o in maniera diversa, uno specifico settore produttivo e perché è utile farlo con urgenza.

Purtroppo, il mondo imprenditoriale e finanziario, e non solo quello italiano, non è particolarmente attrezzato per fornire al legislatore motivazioni pertinenti e ragionate. Perché? È semplice. Non è affatto facile per un’impresa uscire dalla visione miope del proprio interesse specifico e assumere il punto di vista delle Istituzioni, la cui attenzione deve concentrarsi sull’interesse generale.

Per aggirare questa difficoltà, affiora la tentazione di ricorrere alla sempreverde parola magica “investimenti”. Potrà sembrare eccessivo, ma questa semplice parola compendia un intero sistema di pensiero, che fa suonare la solita vecchia canzone: in un mondo globalizzato, l’Italia compete con gli altri principali Paesi industrializzati (e forse non solo con loro) per attrarre investimenti produttivi (e forse non solo quelli), quindi qualsiasi modifica, anche marginale, della cornice normativa di settore o del sistema fiscale può fare la differenza nel determinare il grado di fiducia delle imprese nel sistema-Paese e, di conseguenza, le possibilità che gli investitori internazionali continuino a scommettere sull’Italia. E solo così – continua il disco rotto – l’Italia potrà assicurare nuove opportunità di crescita e di occupazione in settori ad alto contenuto tecnologico. Bla, bla, bla…

Uno sfoggio di pigrizia, assai frequente quando la narrazione si sostituisce all’argomentazione (“Non so bene che cosa dire, tiriamo fuori la storia degli investimenti che funziona sempre“). A pensarci bene è anche un segno di malcelata arroganza (“Noi abbiamo bisogno di X per aumentare la redditività dei nostri investimenti: quindi sarebbe bene che lo faceste perché… la redditività dei nostri investimenti aumenti“) e un ricatto implicito (“Lo sapete che nel Paese Y c’è un credito di imposta? Preferite adeguarvi o preferite che ce ne andiamo?“). Fare lobbying è questione di contenuti, di linguaggi e di stile, e la solita solfa degli investimenti fa acqua da tutte le parti.

Da lobbista e da consulente, ho un argomento in più per consigliare vivamente di lasciare da parte la grande illusione dell’attrazione di investimenti: meglio concentrarsi sulle tante imperfezioni nelle quali lo Stato-regolatore inevitabilmente incorre e sul modo più efficace di farvi fronte. Un ritorno alla prosa? Soprattutto un incitamento alla serietà.